L’OMICIDIO MORO “SVINCOLATO” DALL’ALLEANZA ROM CIARELLI-DI SILVIO, LA SENTENZA DELL’APPELLO

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Massimiliano Moro (foto da latina24)

Omicidio di Massimiliano Moro: pubblicate le motivazioni con cui la Corte d’Appello a Roma ha fatto cadere l’aggravante mafiosa

A febbraio scorso, la prima sezione della Corte d’Appello di Roma, presieduta dal giudice Vincenzo Gaetano Capozza, ha respinto il ricorso della Direzione Distrettuale Antimafia ed emesso la sentenza a carico dei quattro imputati accusati di aver ucciso il criminale latinense Massimiliano Moro, freddato a colpi d’arma da fuoco nel suo appartamento in Largo Cesti, nel quartiere Q5 di Latina. 

Era la sera del 25 gennaio 2010, a distanza di dodici ore dall’attentato contro il boss del Pantanaccio, Carmine Ciarelli, attinto da sette colpi di pistola di fronte al bar Sicuranza. Per gli inquirenti e, in particolare, per l’Antimafia e la sentenza Caronte, pronunciata dal Tribunale di Latina, in primo grado, nel 2012, l’inizio della guerra criminale pontina la quale, 24 ore dopo, lasciò sul campo un altro morto: Fabio Buonamano detto Bistecca, freddato e calpestato con l’auto dai due killer, Giuseppe Di Silvio detto “Romolo” e Costantino Di Silvio detto “Patatone” (entrambi condannati con sentenza passata in giudicato e tuttora in carcere). Entrambi gli omicidi sono considerati ritorsioni del clan (unito per l’occasione), Ciarelli e Di Silvio, contro la fazione italiana della malavita pontina composta da Moro, Nardone, Maricca e altri soggetti. In particolare l’omicidio Moro fu la risposta dei clan rom al tentato omicidio di Carmine Ciarelli detto “Porchettone”.

Dopo i due omicidi eccellenti, arrivò una lunga serie di gambizzazioni e ferimenti, oltreché all’omicidio Celani (comunque slegato dalla guerra criminale, secondo gli investigatori), recentemente giunto a una svolta investigativa.

A febbraio la Corte d’Appello confermò, come in primo grado, le assoluzioni per Antoniogiorgio Ciarelli, difeso dall’avvocato Alessandro Farau e Ferdinando Di Silvio detto “Pupetto”, assistito dall’avvocato Emilio Siviero. Simone Grenga, considerato dall’accusa l’esecutore materiale del delitto, e Ferdinando Ciarelli detto “Macù” ottennero la riduzione della pena a 15 anni e 4 mesi. Sia per Grenga, difeso dagli avvocati Marco Nardecchia e Massimo Frisetti, che per “Macù”, difeso dall’avvocato Italo Montini, cadde l’aggravante mafiosa. Un’altra sentenza, come quella dell’omicidio Giuroiu e quella del processo Reset, che non condivise l’impostazione dell’Antimafia sui clan rom di Latina.

I pubblici ministeri della DDA di Roma, Luigia Spinelli (oggi Procuratore Aggiunto a Latina e Francesco Gualtieri), avevano impugnato le assoluzioni di primo grado di Antoniogiorgio Ciarelli e Ferdinando Di Silvio detto “Pupetto”, oltreché ad impugnare le condanne a 20 anni di reclusione rimediate in primo grado da Simone Grenga e Ferdinando Ciarelli detto Macù per aver commesso l’omicidio aggravato dal metodo mafioso.

I magistrati antimafia chiedevano che ai due condannati venisse riconosciuta la premeditazione dell’omicidio, esclusa dal Tribunale di Latina in primo grado, che avrebbe comportato la condanna all’ergastolo. Ovviamente, si chiedeva che anche i due assolti venissero condannati a 30 anni di reclusione a testa, con il riconoscimento delle attenuanti generiche, così come richiesto in primo grado.

A dicembre, il Procuratore Generale della Corte d’Appello aveva accolto “in toto” le richieste dell’accusa, chiedendo di condannare all’ergastolo Ferdinando “Macù” Ciarelli e Simone Granga e a 30 anni di reclusione sia Ferdinando “Pupetto” Di Silvio che Antoniogiorgio Ciarelli.

Le difese di Macù e Grenga avevano invece chiesto l’assoluzione, ritenendo il racconto dei collaboratori di giustizia Renato Pugliese, Agostino Riccardo e Andrea Pradissitto (reo confesso di aver partecipato all’omicidio e già condannato) inattendibile. Le difese, inoltre, avevano sostenuto che non vi era sodalizio mafioso e che comunque non lo era al momento del fatto.

Alla fine, ad avere ragione, secondo la Corte d’Appello, furono le difese. Ora, sono uscite le motivazioni di quella sentenza che, in sostanza, ammette che non si può parlare di mafia in quanto il sodalizio Di Silvio/Ciarelli, la sera del 25 gennaio 2010, non si era ancora concretizzato.

La prima sezione romana, con tanto di giuria popolare, ha confermato le assoluzioni di “Pupetto” Di Silvio e Antoniogirgi Ciarelli, la cui presenza sotto casa di Moro (attestata dalle celle telefoniche, così come da accertamento della Squadra Mobile di Latina) non può provare la loro penale responsabilità nel concorso dell’omicidio. Non precise vengono considerate le dichiarazioni del reo confesso e collaboratore di giustizia Andrea Pradissitto, considerate imprecise nel collocare la loro presenza temporale sotto l’abitazione della vittima.

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Per quanto riguarda la colpevolezza accertata anche dalla Corte d’Appello per Simone Grenga e Ferdinando “Macù” Ciarelli, i giudici di secondo grado ritengono fondate le dichiarazioni di Pradissitto e degli altri due collaboratori di giustizia, Renato Pugliese e Agostino Riccardo.

Le dichiarazioni di tutti e tre “hanno trovato reciproci riscontri”, in quanto “parlando delle due riunioni tenutesi presso l’ospedale Santa Maria Goretti e del fatto che la convinzione circa la responsabilità di Moro per il tentato omicidio (nda: di Carmine Ciarelle) sia maturata al momento della visita presso il nosocomio da parte dello stesso”.

Riscontro oggettivo è dato dalla telefonata che “Macù” e Grenga fecero a Moro poco prima di passare a casa sua. Riscontrata anche la presenza di Grenga e Pradissitto sotto casa di Moro tramite la rilevazione delle celle telefoniche, mentre quelle di “Macù” non possono essere verificate in quanto il figlio di Carmine Ciarelli lasciò spento il telefono per giorni. Dirimenti anche le intercettazioni tra Macù e il padre Carmine Ciarelli in cui il primo spiega al secondo di come Moro e probabilmente Bistecca “non dormono più a casa, nel letto loro”.

Ad ogni modo, la Corte d’Appello eccepisce sull’aggravante mafiosa “in quanto la nascita dell’alleanza tra le famiglie Ciarelli e Di Silvio risulta essere successiva all’omicidio di Massimiliano Moro”.

“Ciò – spiegano i giudici d’Appello – emerge dalla dichiarazioni di Pradissitto il quale individua il momento della nascita della suddetta alleanza nelle riunioni tenutesi nei giorni successivi rispetto al delitto”. Pradissitto collocherebbe la nascita nelle riunioni del 2 e del 3 febbraio. “Il collaboratore spiegava il fine di questa alleanza consistente nella necessità di “riprendere forza sul territorio”, pianificando una serie di azioni ai danni di determinate persone. Individuava, su domanda del PM, come prima azione di questa alleanza il tentato omicidio di Fabrizio Marchetto di cui so occuparono lo stesso Pradissitto e Grenga”.

In pratica, secondo i giudici di secondo grado, l’omicidio Moro è “del tutto svincolato rispetto a quelle che risultano essere le finalità della suddetta alleanza“. A testimoniarlo ci sarebbe una dichiarazione di Pradissitto: “Il tentato omicidio di Carmine Ciarelli è stato vendicato con l’omicidio Moro. Lì si è chiusa la storia”.

A corroborare le tesi della Corte d’Appello, gli stessi giudici di secondo grado richiamano la sentenza Caronte, conclusosi con una sentenza di condanna per associazione per delinquere “semplice”, “la quale “individua la nascita della faida tra le famiglie rom Ciarelli-Di Silvio e le famiglie non rom in epoca successiva rispetto agli omicidi di Massimiliano Moro e Fabio Buonamano“.

I giudici romani sostengono che “manca la dimostrazione che il l’omicidio Moro sia stato commesso al fine specifico di agevolare l’attività dell’associazione, non sussistendo ancora la stessa, in quanto sorta in epoca successiva e, comunque, all’epoca della vicenda omicidiaria, classificata come semplice, pertanto priva del carattere mafioso“.

Un carattere mafioso che, va detto, all’epoca, non fu contestato dalla Procura di Latina. Un’epoca giudiziaria diversa (si parla di 13 anni fa) dove la parola “mafia” a Latina era considerata troppo grossa.

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