Dirty Glass, il processo che vede imputato l’imprenditore di Sonnino Luciano Iannotta prosegue e a testimoniare è il collaboratore di giustizia
È accusato di un reato connesso anche lui, Renato Pugliese, avendo realizzato, secondo l’accusa, insieme ad Agostino Riccardo e Luciano Iannotta, in qualità di mandante, una estorsione ai danni del rappresentante della Ferrocem Prefabbricati di Latina (una società riconducibile alla galassia imprenditoriale dell’imprenditore di Sonnino) a cui chiesero di pagare 80mila euro.
Oggi, nel processo “Dirty Glass”, è stato esaminato Renato Pugliese, il primo “vero” pentito della storia criminale di Latina che tante pagine di verbale ha riempito parlando di Luciano Iannotta, difeso dall’avvocato Mario Antinucci, e dei suoi rapporti indicibili con i clan rom di Latina. Prima del pentito, sono stati ascoltati due investigatori della Squadra Mobile di Latina che hanno partecipato attivamente alla maxi indagine sull’imprenditore di Sonnino, ripercorrendo alcuni particolari dell’inchiesta.
“Ho conosciuto Iannotta perché fu Umberto Pagliaroli a dire a me e Agostino Riccardo di recarsi da Luciano Iannotta. Io non lo conoscevo ma lui gestiva la società di famiglia di Pagliaroli. Io e Riccardo andammo alla Pagliaroli Spa, andando verso Sonnino. Chiediamo di Iannotta che era il titolare e ci dicono che non c’era e che si trovava a Londra. Dopodiché siamo tornati e, quando siamo entrati in sede, Iannotta comincia ha cominciato a inveire contro Agostino Riccardo. Ci diceva: “Questa è casa mia, vi faccio ammazzare, sono il diavolo”.
Pugliese ricorda che “Iannotta non di diede tempo di parlare. E Agostino diceva: “Non sai chi siamo noi, ti fai male. Se non paghi, finisce male per te e non per noi”. Dopodiché, Iannotta si calmò e gli dicemmo che ci doveva 70mila euro. Iannotta ci disse che il figlio di Pagliaroli si era mangiato tutto e aveva fatto debito per 40 milioni di euro. Lui sosteneva che stava aiutando per far riemergere le attività”.
Per quanto riguarda i soldi “fu Umberto Pagliaroli a dirci che dovevamo andare da Iannotta e farci pagare. In un’occasione, Iannotta spaccò una sedia addosso a Umberto Pagliaroli e gli disse che dovevano ringraziarlo perché stava salvando conti e azienda della loro famiglia”. Secondo il racconto del collaboratore di giustizia, “Pagliaroli disse a Iannotta che se ne stava approfittando del padre e Iannotta si è arrabbiato e ha spacciato una sedia addosso. Aveva le mani pesanti, infatti, in un’altra occasione, picchiò anche Agostino Riccardo”. Alla fine Iannotta pagò 25mila euro che Pugliese e Riccardo avrebbero dovuto dividere con Umberto Pagliaroli e che, invece, non furono divisi.
Pugliese dimostra di conoscere bene Iannotta: “Aveva una villa molto grande a Capocroce. Aveva delle bestie, alcuni animali tipo quelli che sputano. Ho parlato con lui e gli dissi che ero figlio di Costantino “Cha Cha” Di Silvio. Gli dissi anche che avevo un debito di 8mila euro con Luigi Ciarelli che derivava da un debito che aveva con lui Angelo Travali. Mi disse che lo conosceva bene e che gli leccava il culo. L’ha chiamato davanti a me. Gli disse che mi avrebbe dato 8mila euro e poi mi disse di andare a casa di Luigi Ciarelli. Io andai da lui e Ciarelli mi disse che era tutto a posto perché Luciano lo aveva pagato”. Luigi Ciarelli, come noto, è uno dei quattro fratelli della nota famiglia criminale di origine rom. “Quando mi disse che gli leccava il culo, ho capito che Iannotta non era l’ultimo arrivato anche perché i Ciarelli lo rispettavano e non è una cosa molto comune, essendo personaggi molto cattivi che aspettano una virgola sbagliata per colpire. Rimasi molto colpito, di sicuro Ciarelli e Iannotta avevano confidenza. Dopo gli 8mila euro, il figlio di Luigi, Marco, mi chiese 3mila euro. Io andai da Luciano e lui mi disse: “Non dargli retta, sei a posto”.
Il collaboratore di giustizia parla anche dei rapporti tra Iannotta e i Di Silvio capeggiati da Armando detto “Lallà”, spiegando che Iannotta non abbassava la testa neanche davanti al Ferdinando “Pupetto” Di Silvio (figlio di Lallà): “Anche a lui disse di essere il diavolo, rispondendo a Pupetto che gli ricordava di essere uno che aveva sparato”. Una vicenda, quella dell’interlocuzione tra i Di Silvio e Iannotta, che rientra tra gli episodi estorsivi del clan rom, contenuti nel processo “Alba Pontina”, ai danni di due imprenditori di Monterotondo.
“In una cena fatta nel locale di Iannotta a Capocroce, ho avuto il sospetto avesse addosso una pistola. In quell’occasione, Agostino Riccardo chiese a Iannotta di battezzare il figlio di Gianluca Di Silvio, figlio di “Lallà”. Iannotta si commosse”. In fondo, spiega Pugliese, “Iannotta è fatto così. Mi diede mille euro al mio compleanno e mi fece un sorriso. Mi aveva preso in simpatia”.
Il collaboratore ha, poi, parlato della estorsione aggravata dal metodo mafioso contestata nel processo proprio a Iannotta, al medesimo Pugliese e Riccardo. Si tratta del “recupero crediti”, a cui gli inquirenti dedicano un intero capitolo, nei confronti di Vincenzo Cosentino (non indagato) originario della provincia di Catania, che secondo Iannotta era debitore con lui di 80.000 euro – invece secondo Cosentino lui trattenne una cifra di 84mila euro proprio perché non era stato pagato per la sua attività manageriale.
Ecco perché, nel 2016, l’imprenditore di Sonnino si rivolge ai due ex affiliati del Clan Di Silvio, ora collaboratori di giustizia, Renato Pugliese e Agostino Riccardo.
L’estorsione si consuma ed è descritta nei minimi dettagli da Riccardo e Pugliese, con le ripetute visite dei due nella casa di Cosentino in zona Cucchiarelli a Latina, i quali fanno “valere la loro appartenenza al clan Di Silvio ed il rapporto di parentela di Pugliese con Costantino Di Silvio detto Cha Cha”, così da costringerlo “a consegnare in una prima occasione la somma di 2.000 euro e poi somme variabili oscillanti tra i 200 e i 150 euro”. .
È a quel punto, però, che qualcosa si rompe perché Iannotta teme che Cosentino possa rendere noto il suo ricorrere ai cosiddetti “zingari”. Ecco, allora, che l’ex Presidente del Terracina Calcio prova a interloquire con l’estorto Cosentino tramite l’avvocato di quest’ultimo, Pierluigi Angeloni giurando falsamente di non aver mai conosciuto i Di Silvio.
Lo fa presente lo stesso Iannotta in una conversazione captata dagli investigatori con il suo commercialista, il pontino Paolo Fontenova, in cui ricorda di aver denunciato Cosentino perché, a suo dire, avrebbe rubato un cifra intorno ai 70mila euro da un’associazione sportiva riconducibile a Iannotta stesso.
“Lunedì mi vedo con coso… co Angeloni per chiudere quella storia di quel pezzo di merda (ndr: Cosentino)! E vediamo… mi ha chiamato lui mi ha detto che vogliamo fare… dobbiamo andare a discutere oppure facciamo pace… ci mettiamo d’accordo?”. Dice Iannotta rivolto a Fontenova, i quali in una conversazione precedente avevano convenuto di dover dare una cifra, tra i 10mila e i 12mila euro, a Cosentino, così da evitare che questo diffondesse le estorsioni subite da Riccardo e Pugliese.
Il commercialista Fontenova (coinvolto con Iannotta in un procedimento giudiziario per il fallimento di FERRO PRESAGOMATO in ordine a reati fiscali) gli risponde: “Ma quello è una testa di cazzo comunque si è inculato ottantamila euro. Glielo hai detto?“.
Iannotta: “Sì lo sa! Lo sa! Lo sa ha detto che servivano“.
Fontenova; “E che dice?“
Iannotta: “Ha detto che tu l’hai sfruttato per una vita che non…“
Fontenova: “Ma andasse affanculo va! L’ho…l’ho sfamato per una vita! L’ho sfamato perché l’ho tenuto per cinque anni come amministratore della Key e gli davamo 15mila euro l’anno! Capito? 15mila euro l’anno!“.
Iannotta: “Quello è un pezzo di merda Pa’! Quello è un pezzo di merda“.
La vicenda a cui si riferisce Paolo Fontenova, commercialista molto noto a Latina, è quella del Palazzo Key, il grattacielo confiscato che si erge come un rudere tra lo Stadio Francioni e Piazza del Popolo, disegnando uno skyline scadente e scaduto del capoluogo di provincia.
E Cosentino non un omonimo, è proprio lo stesso che fu processato con il commercialista Fontenova dal Tribunale di Latina sulla vendita simulata dell’edificio. Il processo di primo grado finì nel 2015 con le condanne di Fontenova (3 anni di reclusione) più altri quattro e l’assoluzione di Cosentino e altri quattro imputati. Condanne che non portarono a molto poiché i reati si prescrissero pochi giorni dopo.
Tornando all’udienza odierna, alla fine dell’esame che si concluderà il prossimo 19 settembre, Renato Pugliese ha voluto dichiarare in udienza qualcosa di inaspettato: “Voglio dare la mia solidarietà alla dottoressa Spinelli che mi ha seguito per nove anni, da quando sono diventato collaboratore di giustizia. Ho saputo quello che gli è successo (nda: si riferisce alle minacce del clan Ciarelli) e mi dispiace molto”. Poi, rivolgendosi al pubblico ministero della DDA, Francesco Gualtieri, che lo ha esaminato, Pugliese dice: “Sono sicuro che il dottor Gualtieri continuerà sulla strada tracciata dalla dottoressa Spinelli. Questa città ne ha bisogno”.
Alla fine dell’udienza, Luciano Iannotta rilascia come di consueto le sue dichiarazioni sbagliate. “Sono io ad aver detto a Pugliese e Riccardo di lasciare stare Cosentino. E mai avrei fatto da testimone di nozze a un rom, dal momento che mia moglie è testimone di Geova”.
IL PROCESSO “DIRTY GLASS” – Un processo di rilievo, scaturito da una indagine imponente della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e della Squadra Mobile di Latina, che, come scritto in questi anni più volte, è arenato, tanto che nell’ultima udienza (non) celebrata a settembre, lo stesso presidente del terzo collegio del Tribunale di Latina, Mario La Rosa, ha esclamato la frase inequivocabile: “Dire che è bloccato è poco”.
Ad essere imputati, oltreché all’imprenditore, Luciano Iannotta, ci sono quelli che, dalla Direzione Distrettuale Antimafia e dalla Squadra Mobile di Latina, sono ritenuti essere i suoi sodali di un tempo, tra affari, malavita, criminalità organizzata e persino servizi segreti: Luigi De Gregoris, Antonio e Gennaro Festa, i carabinieri Alessandro Sessa e Michele Carfora Lettieri, Pio Taiani e Natan Altomare. Parti civili l’associazione antimafia “Antonino Caponnetto” e, per l’appunto, la curatela fallimentare della società “Global Distribution”.
I reati contestati, a vario titolo, sono molteplici: in materia fiscale e tributaria, violazioni della legge fallimentare, estorsione aggravata dal metodo mafioso, intestazione fittizia di beni, falso, corruzione, riciclaggio, accesso abusivo a sistema informatico, rivelazioni di segreto d’ufficio, favoreggiamento reale, turbativa d’asta, sequestro di persona e detenzione e porto d’armi da fuoco. Senza contare che uno dei reati più gravi contestati – il sequestro di persona – è già saltato per via della Legge Cartabia. Una legge che prevede la non procedibilità nel caso in cui non vi sia una querela della vittima, in questo caso delle due vittime.