CAPORALATO, L’ASSESSORE REGIONALE AL LAVORO ELOGIA IL MODELLO DI CONTRASTO PONTINO

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L’assessore al Lavoro, Scuola e Formazione della Regione Lazio, Claudio Di Berardino, elogia il modello messo in piedi nella provincia di Latina sul caporalato

Nel Lazio abbiamo introdotto, nella provincia di Latina, un progetto a 360 gradi per il contrasto al caporalato e allo sfruttamento del lavoro in agricoltura. Sono tre i principali assi su cui abbiamo investito le risorse: sportelli dedicati nei centri per l’impiego e la app FairLabour per il corretto incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro; trasporti gratuiti per i braccianti nel percorso casa-lavoro; supporto al diritto a abitazioni dignitose. A questi pilastri abbiamo affiancato campagne di comunicazione multilingua e mediatori culturali. Un’operazione su cui, come Regione Lazio, dobbiamo continuare a lavorare senza indugio per sottrarre al caporalato tante donne e tanti uomini che lavorano in agricoltura. 
Stiamo lavorando alla predisposizione degli indici di congruità quale unica strada per risolvere in modo strutturale il corretto rapporto tra qualità del prodotto e quantità di manodopera contrastando anche così il lavoro sommerso e il conseguente sfruttamento. Non solo. Occorre impegnarsi affinché il caporalato possa essere contrastato in tutti i settori sensibili come edilizia, logistica, servizi e commercio. Come Regione, siamo pronti a farlo attraverso una legge regionale dedicata
“. 

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Cosi in una nota Claudio Di Berardino, assessore al Lavoro, Scuola e Formazione della Regione Lazio in occasione della presentazione del V rapporto agromafie e caporalato – FLAI CGIL

Focus – I contenuti del Rapporto Agromafie e Caporalato n. 5, a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto/Flai-Cgil

Nella Prima Parte il Rapporto mette in evidenza la correlazione esistente tra la conoscenza puntuale del territorio nazionale nelle sue articolazioni geografiche, come fatto preventivo per contrastare le organizzazioni mafiose che, in maniera diretta o indiretta, riescono ad infiltrarsi nel settore agroalimentare, dirottando a loro vantaggio parti della ricchezza prodotta lungo la catena di valore, che parte dalla semina fino al mercato quindi al consumatore.
È anche per questo motivo che alle pratiche di sfruttamento vanno contrapposti i diritti dei lavoratori, diritti che vanno tutelati e garantiti a prescindere dalla nazionalità delle maestranze. La cittadinanza dei lavoratori infatti è motivo di forti criticità: da una parte, secondo il rapporto, pesa l’impianto iniquo della “legge Bossi-Fini”, dall’altra, i “Decreti Salvini” focalizzati ossessivamente sull’accostamento in termini sicuritari tra dell’immigrazione e criminalità (la cosiddetta “crimmigration”).
Non secondaria è l’attenzione posta alla recente regolarizzazione dei lavoratori stranieri in generale e, in particolare, di quelli occupati nel settore agroalimentare. I dati in possesso dell’Osservatorio, alla prima metà di settembre, non hanno permesso una fotografia puntuale, ma le domande, presentate al 15 agosto 2020, ammontavano a 207.542, di cui 30.694 riguardanti il settore primario (comparabile alla cifra rilevata nel 2003 con la “grande sanatoria”). L’Osservatorio ha cercato di valutare i risultati del provvedimento, anche perché – come oramai tradizione del nostro Paese – le regolarizzazioni appaiono ancora come espressione di quello che viene oramai da anni definito il “modello italiano”, ovverosia l’emersione delle componenti irregolari o che – non secondariamente – diventano tali per le considerazioni sopra accennate.
L’attenzione si sposta poi sulle condizioni abitative, in particolare delle componenti straniere, perché una parte rilevante di questi ultimi vive all’interno di insediamenti informali di fortuna (ghetti, baraccopoli). Incrociando tale situazione con le basse retribuzioni, si genera un circolo vizioso che rende praticamente impossibile fuoriuscire da questo perverso meccanismo emarginante.
Nella Seconda Parte, il Rapporto si concentra su diversi aspetti, che offrono una visuale sfaccettata del fenomeno dello sfruttamento e su come, da un punto di vista critico, sono state evidenziate luci ed ombre delle disposizioni normative promulgate negli ultimi anni, e come da queste critiche è possibile attivare interventi di aggiustamento delle disposizioni medesime. Interventi che all’Osservatorio ed alla Flai Cgil appaiono necessari per prevenire infortuni sul lavoro, infortuni di diversa gravità ed anche di situazioni (purtroppo) caratterizzate da morti sul lavoro. Vuoi per la mancanza di strumenti antinfortunio e Dispositivi di Protezione Individuale (DPI), vuoi per i ritmi estenuanti di lavoro (il cottimo è quasi una regola aurea), vuoi, infine, ma non secondariamente, per gli attacchi razzisti che vengono perpetrati contro i lavoratori agricoli, soprattutto di origine straniera.
Tra le maestranze straniere un posto di rilievo è dato dalla componente femminile: sia per la sua crescita quantitativa, che si rileva nei processi migratori (si parla appunto di “femminilizzazione dei flussi”), e dunque di una accentuata presenza nei mercati del lavoro che tendono, perciò, a configurarsi come fortemente segmentati sulla base del genere, della classe e della nazionalità. L’impiego in agricoltura costituisce il terzo settore dove si riversano una parte delle donne migranti, dopo il lavoro domestico e di cura. In questo ambito occupazionale, emerge un maggior isolamento delle lavoratrici agricole che, specularmente, tende a caratterizzarsi con una forte dipendenza dal datore di lavoro, rendendo i rapporti di lavoro particolarmente permeabili a forme di variegate di abuso (incluse quelle a sfondo sessuale) e sfruttamento: le paghe di fatto sono mediamente minori, mentre gli orari di lavoro sono pressoché assimilabili a quelli dei colleghi maschi. Anche le donne, come gli uomini, sono reclutate da caporali (o dalla “caporala”, come nel brindisino/tarantino) o da datori di lavoro che mirano a sfruttare a loro vantaggio la loro maggior vulnerabilità/ricattabilità (soprattutto in presenza di figli/genitori a carico), ovverosia lo stato di bisogno nella quale versano sovente i lavoratori/lavoratrici.
L’analisi prosegue mettendo a fuoco la problematica della catena del valore, che caratterizza il settore agroalimentare, cercando di capire quale possa essere il salario minimo da erogare per soddisfare il giusto reddito del datore di lavoro e allo stesso tempo non penalizzare né sfruttare il lavoro delle maestranze occupate. Sappiamo che la prima fase della catena di valore (semina e raccolta) è quella che influenza in modo positivo o negativo tutte le fasi successive: dal conferimento del prodotto alla sua trasformazione e confezionamento, al trasporto e alla successiva commercializzazione e vendita al consumatore. Tale salario minimo, risultato da un accurato studio delle proposte esistenti, si aggira intorno ai 12 euro l’ora, che dovrebbero permettere, anche in base a verifiche e monitoraggi successivi, di ridurre progressivamente lo sfruttamento che si concentra nelle prime fasi della filiera, quella dove l’impiego dei caporali (anche in mancanza di servizi del lavoro efficaci) trova la sua massima (e ampiamente distorsiva) funzionalità.
Nella Terza Parte sono riportati i casi di studio territoriali effettuati in cinque regioni: il Veneto (con le province di Verona, Vicenza, Padova e Rovigo), la Toscana con la provincia di Livorno (e in particolare la Val di Cornia), la Campania con la provincia di Salerno (e in particolare la Piana del Sele con i comuni di Battipaglia ed Eboli), la Puglia con le province di Brindisi e Taranto e, infine, la Sicilia con le province di Agrigento e di Trapani.
Lo sfruttamento lavorativo attraversa trasversalmente tutto il Paese, visto che più o meno dappertutto troviamo occupati regolari con contratto rispettato in tutte le sue parti, occupati con contratto ma con parti dello stesso non rispettati (riduzione delle giornate di lavoro, salario minore di quello che compare nel medesimo contratto, risposi e ferie dimezzati o inesistenti), occupati senza contratto con rapporti di lavoro sbilanciati o asimmetrici (dal punto di vista economico e dall’assenza degli strumenti e attrezzatura antinfortunistica) in favore del datore di lavoro, occupati senza contratto fortemente sfruttati e non di rado esercitanti l’attività in condizione pressoché servile.
Ciò che caratterizza queste ultime tre categorie di lavoratori è spesso lo stato di bisogno, e dunque l’alta esposizione al rischio di sfruttamento, dovuto alla ricattabilità qualora non si accettassero le condizioni dell’ingaggio occupazionale. E quasi sempre, sono le tre categorie che risentono dell’intermediazione illegale di manodopera e accrescono pertanto, in ciascun distretto agroalimentare, la sub componente di lavoratori che viene coinvolta con maggior facilità nelle occupazioni caratterizzate dalle pratiche di caporalato. Per ciascuna Provincia analizzata vengono riportati i dati degli occupati ufficiali (suddivisi per nazionalità, genere e temporalità del contratto), i dati della manodopera irregolare stimata dall’Istat e i dati e le informazioni acquisite tramite le interviste a 200 testimoni.
Nella Quarta Parte del Rapporto, infine, vengono riportati degli approfondimenti che nell’insieme sono complementari alla conoscenza del fenomeno del caporalato. Nel Veneto è stato approfondito il rapporto tra impiego di manodopera irregolare e la presenza delle organizzazioni criminali e mafiose, analizzando la documentazione reperibile delle Direzioni Distrettuali Antimafia degli ultimi anni. Nella Piana del Sele (in provincia di Salerno) e nel brindisino e nel tarantino l’approfondimento ha riguardato il rapporto tra processo di modernizzazione della struttura produttiva agroalimentare e il permanere di rapporti di lavoro basati sull’intermediazione illegale di manodopera, anche correlati ad una visione ancora di tipo patriarcale, soprattutto per la compresenza di fattori configurabili come “tradizionali”, ovvero basati perlopiù su rapporti di natura prettamente paternalistica. Infine, il Rapporto ha focalizzato l’attenzione sull’Agenzia contro il caporalato della Gran Bretagna, descrivendo le norme di riferimento, l’articolazione interna e le funzioni di ciascuna di esse, nonché l’impatto, che è stato possibile ricostruire, sul fenomeno.

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