Ore 10 e 25 del mattino di sabato 2 agosto 1980, sala di aspetto della 2° classe della Stazione di Bologna: un boato, la polvere, le urla, le sirene. La sequenza cronologica dei quattro istanti sarà il denominatore comune dei ricordi dei sopravvissuti. Sin dai primi giorni successivi alla tragedia risultano 84 i morti accertati e 200 i feriti, più un corpo che non si trova: quello di Maria Fresu, madre della piccola vittima Angela (3 anni). Maria, secondo le testimonianze, doveva essere seduta vicino alla valigetta contenente la bomba, nella stessa sala in cui era stato ritrovato il cadavere della figlia. Solo nel dicembre di quello stesso anno un laboratorio elvetico individuerà in alcuni frammenti raccolti in prossimità dei binari i resti del corpo di Maria.
LA SALA DI ATTESA DELLA STAZIONE DI BOLOGNA ERA PIENA DI TURISTI
L’onda d’urto dei 5 kg di tritolo, miscelati ai 18 di nitroglicerina, aveva spinto piccole porzioni della vittima a decine e decine di metri dal luogo dell’esplosione. Perse la vita anche lo studente universitario giapponese Iwao Sekiguchi, arrivato in Italia per visitare le bellezze del Nostro Paese, e il cui padre, pur non conoscendo una parola d’italiano, avrebbe assistito dalla platea a tutte le udienze processuali. Morta anche la giovane coppia inglese di neolaureati, Catherine Hellen Mitchell e John Andrew Kolpinsky. L’operaio tedesco Horst Mader perse moglie e due figli, solo il primogenito sedicenne Holger sopravvisse.
IL SOCCORSO DI TUTTA BOLOGNA
Tonino Braccia, al tempo militare di leva in attesa di prendere il treno per raggiungere il luogo del matrimonio di una cugina, fu più fortunato e ha potuto negli anni riferire quanto accaduto. Tonino ha perso l’occhio destro, frattura dell’omero, varie emorragie interne, segni di quel 2 agosto ancora visibili sulla guancia destra e, dopo esser stato sottoposto a venticinque interventi chirurgici, ricorda che se l’attentato non fosse avvenuto a Bologna, egli sarebbe certamente morto. Sì perché i soccorsi, per quanto disorganizzati e inadeguati nei mezzi a disposizione, furono immediati. Non fu solo Ivano Paolini, responsabile dei soccorsi alla Stazione, ad attivarsi all’istante, ma gran parte della cittadinanza bolognese a dimostrarsi all’altezza delle tragiche circostanze. Vigili del fuoco, infermieri, passanti che sollevavano lamiere di tettoie a mo’ di barelle con sopra passeggeri feriti. Anche le scale di legno venivano utilizzate all’occorrenza come mezzi di soccorso. Le ambulanze non erano sufficienti e allora quello che sarebbe divenuto il simbolo del soccorso del 2 agosto, l’autobus 37, diveniva una grande ambulanza pronta ad ospitare le vittime. Simbolo della strage quanto l’orologio della stazione fissato all’ora dello scoppio. Anche i tassisti si misero a disposizione e le loro vetture iniziarono a fare la spola tra la Stazione e il Sant’Orsola. I donatori di sangue che si presentarono presso le strutture ospedaliere furono addirittura in numero superiore alle esigenze!
LA MEMORIA DEI GIOVANI SUPERSTITI E DEI PARENTI DELLE VITTIME
Tra i superstiti a raccontare quel giorno anche tre adolescenti di allora: Sonia Zanotti, il cui piede destro fu recuperato per miracolo e le cui ustioni di 2/3° grado hanno lasciato il segno soprattutto sulla psiche; Paolo Sacrati, studente delle medie, contento di partire con la nonna per le vacanze estive, le cui ferite furono richiuse dopo 130 punti di sutura; Giuseppe Soldano, al tempo quattordicenne, 4 giorni di coma e un polmone perforato. Il giovane ternano Sergio Secci invece non sopravvisse e, dopo 5 giorni di agonia e una gamba amputata, lasciò al padre Torquato il pesante onere di fondare la prima associazione di vittime del terrorismo d’Italia. Torquato Secci non perse mai un’udienza in tribunale e la sua voglia di ricerca della verità è stata perpetuata dalla vedova e dal successore alla presidenza dell’associazione Paolo Bolognesi. Ogni anno il 2 agosto a Bologna, tre sibili di locomotore ricordano l’attentato che ha portato il maggior numero di morti nella storia d’Italia.
DEPISTAGGI SUBITO DOPO LA STRAGE
Nell’immediato, la posizione ufficiale sia del Presidente del Consiglio Francesco Cossiga che delle forze di polizia fu quella di attribuire l’esplosione ad una vecchia caldaia localizzata nel sotterraneo della stazione. Tuttavia, a seguito dei rilievi svolti e delle testimonianze raccolte sul posto, apparve chiara la natura dolosa della tragedia. Le indagini si orientarono nell’ambiente del terrorismo di estrema destra. Molti anni dopo, ricordando l’ipotesi della caldaia, il Pubblico Ministero nel processo della strage del 2 agosto, Libero Mancuso, ebbe a dire in un’intervista che i depistaggi erano già iniziati pochi minuti dopo la strage. Ciò fu particolarmente grave perché, essendo esclusa nelle prime ore l’ipotesi di un attentato, gli esecutori poterono dileguarsi indisturbati.
IL RUOLO DEI SERVIZI NEL DEPISTAGGIO
Il secondo depistaggio fu una presunta rivendicazione da parte dei Nuclei Armati Rivoluzionari fatta recapitare presso la redazione de l’Unità. Seguirono poi le telefonate di smentita del gruppo terroristico. Vi furono poi altri episodi di depistaggio, organizzati per far terminare le indagini, dei quali il più grave è quello ordito da parte di alcuni vertici dei servizi segreti del SISMI, tra i quali Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte (il primo era affiliato alla loggia P2 di Licio Gelli), che fecero porre il 13 gennaio 1981 sul treno Taranto-Milano, da un sottufficiale dei carabinieri, una valigia piena di esplosivo. Tritolo misto a gelatinato dello stesso tipo che fece esplodere la stazione, contenente oggetti personali di due estremisti di destra, un francese (Raphael Legrande) e un tedesco (Martin Dimitri), entrambi legati a Stefano Delle Chiaie. Musumeci produsse anche un dossier fasullo, denominato “Terrore sui treni”, in cui riportava gli intenti stragisti dei due terroristi internazionali in relazione con altri esponenti dell’eversione neofascista, tutti legati allo spontaneismo armato, senza legami politici, quindi autori e allo stesso tempo mandanti della strage.
LE OSCURE RAGIONI DEI DEPISTAGGI
La motivazione del depistaggio venne da taluni individuata nell’obiettivo di celare la strategia della tensione, oppure, secondo altre ipotesi, nel proteggere Gheddafi e la Libia da possibili accuse, in quanto divenuti ormai partner commerciali importanti per FIAT e ENI. Lo stesso giorno della strage, a Malta, si firmò l’accordo a La Valletta, in cui l’Italia si impegnava a proteggere Malta da attacchi libici, come quelli che si sarebbero poi verificati in quella zona del Mediterraneo.
LE VICENDE PROCESSUALI
Il 19 gennaio 1987 ebbe inizio il processo di primo grado. Tutte le accuse vertevano sulle testimonianze dell’ex detenuto e ex scassinatore Massimo Sparti, il quale riferiva di aver ricevuto presso la sede della propria attività commerciale di Roma il 4 agosto, due giorni dopo l’attentato, i giovani NAR Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Giusva avrebbe affermato da subito “Hai visto che botto!?” e di esser stato presente quel giorno alla Stazione assieme alla sua compagna Francesca. Fioravanti, sempre secondo le affermazioni dello Sparti, avrebbe detto di non esser preoccupato tanto della sua identificazione, in quanto reso irriconoscibile dal travestimento con abiti tradizionali tirolesi al momento dello scoppio, quanto del possibile riconoscimento della Mambro che si sarebbe limitata a tingere i propri capelli di rosso e che per tale ragione aveva bisogno di procurarsi un documento falso per fuggire in Sicilia. Sparti riferiva inoltre di essersi prodigato per fornire documenti contraffatti ai due intercedendo presso terze persone.
IL TESTE SPARTI
Le dichiarazioni di Sparti furono confutate già al tempo del processo dalla propria moglie e dalla domestica le quali riferirono al Giudicante che in quei giorni il testimone non era a Roma bensì nella casa di famiglia a Cura di Vetralla. Lo stesso figlio di Sparti, Stefano, dichiarò anni dopo la morte del padre, avvenuta nel 2002, che agli inizi d’agosto tutta la famiglia era in vacanza fuori Roma e che le dichiarazioni dello stesso padre agli inquirenti lo avrebbero avvantaggiato nella scarcerazione anticipata, motivata attraverso presunte ragioni di salute. La diagnosi di cancro al pancreas dello Sparti sarebbe stata possibile grazie ad alcune lastre scambiate con quelle di un altro paziente. Massimo Sparti morì del resto 20 anni dopo non di cancro al pancreas bensì ai polmoni.
LE CONDANNE A MAMBRO E FIORAVANTI
L’11 luglio 1988, la sentenza di primo grado condannò per strage Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Sergio Picciafuoco. Il 18 luglio 1990 la pronuncia della sentenza d’Appello assolse tutti gli imputati dall’accusa di strage. Il 12 febbraio 1992 la Corte di Cassazione dichiarò che il processo d’Appello doveva essere rifatto in quanto la sentenza di 2° grado era definita illogica e priva di coerenza. Nell’ottobre 1993 iniziava il secondo processo d’appello e il 16 maggio 1994 la sentenza confermava l’impianto accusatorio del processo di primo grado. Infine il 23 novembre 1995 la pronuncia della sentenza della Corte di Cassazione confermò quella del secondo processo d’Appello. Condannati all’ergastolo quali esecutori della strage, i neofascisti Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro si sono sempre dichiarati innocenti, mentre hanno ammesso e rivendicato 4 omicidi come esecutori materiali e altri 4 come responsabili. I 2 NAR affermarono sempre in sede processuale e nelle varie interviste giornalistiche di esser in quel periodo latitanti tra Padova e Treviso.
LICIO GELLI E LA P2
L’ex Gran Maestro della loggia massonica P2 Licio Gelli, l’ex agente del SISMI Francesco Pazienza e gli ufficiali del servizio segreto militare Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte vennero condannati per il depistaggio delle indagini. Nel giugno 2000, la Corte d’Assise di Bologna avrebbe condannato anche il NAR Luigi Ciavardini, diciasettenne all’epoca dei fatti, a 30 anni per strage (confermati nel 2007). Sergio Picciafuoco, criminale comune e simpatizzante di destra, unico imputato presente alla stazione di Bologna per sua stessa ammissione, venne condannato in primo grado nel 1988, ma assolto in via definitiva nel 1997 dalla Cassazione. La sua presenza alla Stazione la mattina dell’attentato fu ritenuta non correlata in alcun modo con l’esecuzione della strage stessa. Ad oggi non conosciamo i mandanti dell’uccisione di 85 persone e del ferimento di altre 200.