Operazione Scarface: tra le estorsioni più esemplificative quella tentata da uno dei figli di “Romolo” Di Silvio a un giovane di Latina
Di certo, il terreno dove si muove meglio il clan retto da Giuseppe Di Silvio detto “Romolo” è quello delle estorsioni. Un campo dove vince chi sa stare meglio sulla strada, come si dice in gergo, e nel quale il sodalizio del Gionchetto, da sempre quello con più capacità militare, possedendo armi e non mancando di determinata violenza, ha fatto la sua parte. Da anni e da sempre: prima con le piccole estorsioni dimostrative dei rampolli di casa come i fratelli Costantino e Antonio Di Silvio, detti rispettivamente Patatone e Sapurò, che negli anni Novanta già imperversavano per le vie del centro cittadino; poi, più compiutamente, con il regime di “Romolo”, erede di Antonio Di Silvio detto Papù, considerata la morte violenta e prematura del designato al trono di “Scarface”, il fratello Ferdinando Di Silvio detto Il Bello, padre dei predetti Sapurò e Patatone.
Nell’operazione Scarface se ne contano, di estorsioni, almeno otto più un furto alla sala slot di Viale Le Corbusier a Latina messo in pratica da Patatino e Prosciutto Di Silvio, il figlio di Costanzo Di Silvio, Costantino detto Cazzariello, Roberto Di Silvio zio dei fratelli Travali, e altri affiliati quali Yasine Slimani e Romulado Montagnola. Il furto fu realizzato, secondo gli investigatori, grazie alle chiavi della sala slot messe a disposizione da una dipendente: la giovane 29enne Sara Bianchi di Cori, posta agli arresti domiciliari dalla Gip di Roma.
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Tra le otto estorsioni sicuramente spiccano quelle compiute ai danni di un noto ristorante di Anzio, “Romolo al Porto”, conosciutissimo dagli amanti del pesce e a quanto pare frequentatissimo dagli affiliati al clan rom. Non solo quelli del gruppo di Romolo.
Stentorea la telefonata che il fratello di Romolo Di Silvio, Costanzo Di Silvio detto il cavallaro, fa al titolare del ristorante anziate ricordandogli che la sera sarebbero venuti a mangiare due parenti. Al che, alle rimostranze del ristoratore, che più non voleva offrire cene gratis, Costanzo gli menziona il suo cognome: “Ohhh…Di Silvio“. Risultato: resa totale da parte del titolare del ristorante.
Pare dalle intercettazioni captate dagli investigatori che il gruppo di Romolo considerasse roba propria il ristorante. È persino il più giovane del gruppo, Ferdinando Di Silvio detto Pescio ad alzare la testa e a dire: “andiamo da Romolo al Porto…e gli faccio vedere io…a sto…a sta merda“. Frasi non proprio rassicuranti detto da uno che il padre “Patatone” Di Silvio (all’anagrafe Costantino), in carcere per l’omicidio di Buonamano (i Di Silvio lo chiamano “Bistecchella” facendo capire che sarebbe stato risparmiato se avesse agito da esca per Massimiliano Moro), avrebbe voluto escluso dagli affari delittuosi della famiglia. Un proposito fallimentare visto che Pescio ha già vari precedenti e si è reso protagonista dei famigerati spari a Via Moncenisio, strada roccaforte dove abitano Romolo e altri parenti, adibita anche a centro di spaccio e decisionale per le azioni del Clan.
Sempre per quanto riguarda il ristorante di Anzio, bersaglio dei clan rom tra cene di lusso non pagate ed estorsioni tentate e consumate, sono i due collaboratori di giustizia Renato Pugliese e Agostino Riccardo a confermare l’andazzo. “Andammo a chiedere i soldi (ndr: estate 2016) – riferisce a verbale Pugliese nel 2017 – per il processo di Angelo Travali e per pagargli la difesa. Romolo (inteso come il ristoratore) ci diede 1500 euro e ci offrì anche il pranzo. I soldi vennero dati per quieto vivere perché così si levava il problema”
Agostino Riccardo conferma e aggiunge in un verbale reso alla DDA nel luglio 2018: “Romolo al Porto ha subito un’estorsione per conto mio e Renato Pugliese. Preciso che l’estorsione l’hanno messa in atto Viola e Travali e riguardava il battesimo del figlio di Francesco Viola. Gli fece il catering e non fu pagato. Nel 2015 si face fare un catering da 20mila euro per il battesimo del figlio dove spese circa 150mila euro. Ricordo che aveva ospiti quali Enzo Salvi (ndr: noto come Er Cipolla e partecipante a diversi cinepanettoni) e 4-5 cantanti neomelodici di Napoli. Viola diede 14mila euro al ristoratore ma non pagò il resto perché il pesce non gli era piaciuto.
Ascoltati a sommarie informazioni dalla Squadra Mobile di Latina il ristoratore e un dipendente, l’esito è inquietante. Il ristoratore derubrica gli episodi estorsivi a piccoli sconti, il dipendente nega persino di conoscerli e averli mai visti: “Non conosco tra i soggetti raffigurati in foto persone riconducibili a clienti del locale in cui lavoro”. Parole lapidarie, di un’omertà non scalfibile.
Sicuramente un noto ristorante ma non l’unico preso di mira: c’è un’estorsione recapitata al “Country” di Latina e un’altra ai danni de “La Playa” nei pressi del lido pontino. Titolari messi alle strette e costretti a pagare anche per responsabilità in capo ad un dipendente. E poi ci sono le estorsioni al negozio di Scarpamania a Sermoneta Scalo dove gli affiliati Costanzo e Prosciutto si facevano il prezzo delle scarpe da soli; oppure al Bar Saccucci di Nettuno in località Tre Cancelli, costringendo il titolare a consegnare loro migliaia di euro (un fatto contestato anche a una donna del clan, Giulia De Rosa detta Peppina). Non manca neanche la frutteria messa sotto scacco da Anna Di Silvio detta Gina che, spendendo il nome della famigghia, si presenta a in una frutteria al centro di Latina pretendendo la consegna di frutta e verdura senza pagare.
Eppure l’estorsione probabilmente meno violenta ma più significativa, ossia che restituisce l’humus e l’allure criminale del gruppo di Romolo, è quella che prova a praticare Ferdinando Di Silvio detto Prosciutto, figlio del boss.
Siamo nel mese di gennaio 2019, Prosciutto contatta il giovane da estorcere, sapendo che in passato aveva riciclato auto rubate, con l’intento di procurargliene una per inserire i dati di un’altra auto incidentata. Un modo per poter occultare il mezzo così da avere campo libero per una qualche azione criminale.
Al rifiuto della vittima di tentata estorsione, l’uomo delle auto riciclate viene contattato di nuovo nell’aprile 2019. Stavolta, però, i toni sono da figlio di un boss: aggressivi e mafiosi. È in questo momento che il giovane riciclatore di auto alza la testa e dice a Prosciutto che lo avrebbe denunciato se avesse continuato nella sua azione persecutoria. Prosciutto di rimando lo minaccia: “Se tuo padre mi denuncia la tua famiglia è finita“.
Solo con l’intervento di Simone Venerucci, un altro giovane con precedenti, con un padre che stava negli ambienti, vicino ai Travali e con un’amicizia importante come quella con Riccardo Mingozzi, marito di una figlia di Romolo Di Silvio (poi silurato, dopo averla schiaffeggiata) e affiliato come pusher al Clan (arrestato anche lui nell’operazione Scarface). Venerucci avrebbe risolto la questione, sebbene il giovane riciclatore non abbia mai saputo in che modo.
Tuttavia, sono le intercettazioni captate dagli investigatori a dare l’esatta contezza di cosa significhi per un Di Silvio appartenere a un clan potente e potenzialmente inestinguibile.
Alle rimostranze del riciclatore d’auto, Prosciutto dice: “Te lo ripeto per l’ultima volta, poi mi hai rotto il cazzo a parla’ troppo al telefono…se tu vieni ti parlo sincero…io non ti faccio niente…io faccio a modo mio”.
La vittima: “Fai a modo tuo?”
Prosciutto: “eh”
La vittima: “Io mi sono comportato bene, basta Ferdina’!”
Prosciutto: “quindi se a te non ti va…a posto”
La vittima: “Chiudiamo questa cosa così”
Prosciutto: “Poi se ti scopano il culo non venire da me, non mi chiamare”
La vittima: “Lo sai che è, non sto facendo niente di male, non voglio andare là…non voglio niente e non me ne frega un cazzo. M’hai stressato”.
Prosciutto: “io te lo dico, te lo ripeto per l’ultima volta”
La conversazione va avanti su questo tenore fino a raggiungere il clou.
Prosciutto: “È solo peggio la situazione, perché se poi te veramente come dici tu…tuo padre va a fare la denuncia…se tu fai una denuncia…compa’…sei finito”.”
La vittima: “oh la denuncia, la colpa è la tua perché gli sei andato a rompere il cazzo”
Prosciutto: “se tuo padre fa la denuncia tu sei finito, sei un uomo morto…poi non puoi più girare”.
E ancora, rivolto alla vittima, Prosciutto incalza: “Tu non giri per Latina…se io veramente…veramente ti sto dicendo che se tu non vieni…sappi che sei finito…la tua famiglia è finita“.
La vittima: “Mi stai minacciando adesso, lo sai?”
Prosciutto: “Non ti sto minacciando…quello che si sta comportando male sei te”
E ancora, dopo un’escalation continua, Prosciutto: “Mi stai sfidando così eh”.
La vittima nega di aver mai pensato a una sfida, desidera solo essere lasciato in pace. Cambierà abitudini, non uscirà più di casa a certe ore, smetterà di frequentare la via dei pub come tanti in questi anni, ma Prosciutto deve avere l’ultima parola, pur ricevendo una lavata di capo in seguito dal cognato Fabio Di Stefano al quale il padre Romolo aveva ordinato di farlo desistere dall’estorsione. Il boss sa che una denuncia è peggio di un’azione criminale andata male.
Prosciutto effigia così l’ultima minaccia al giovane che si è rifiutato di fornirgli un’auto rubata: “Sappi ti taglio le unghie del piede. Sappi che poi è peggio…tanto se vai…se tu mi denunci…sappi che poi ci sta un’altra persona…per se tu denunci quello, ci sta un’altra persona ancora…ai voglia a te”.
Tradotto: noi Di Silvio siamo tanti, denunci uno e ti piomba addosso un altro, denunci di nuovo e ne hai ancora un ulteriore alle calcagna. La capacità del Clan rom di disporre di tanti parenti, famiglie non di certo sparute e in controtendenza con la bassa demografia italiana, la possibilità di essere uniti nei momenti di necessità. Ne è esempio la guerra criminale pontina del 2010 quando si allearono tre sodalizi che compiono affari separati e qualche volta si odiano: il clan Ciarelli di Pantanaccio, il clan Di Silvio di Campo Boario e il clan Di Silvio del Gionchetto.
È su questa potenzialità infinita, cementata in una solidarietà etnico-mafiosa, che Prosciutto e quelli come lui riducono a uno stato di larvale dignità coloro che gli capitano a tiro. E nessuno – comune denominatore delle estorsioni dei Di Silvio – denuncia, lasciando la speranza alla prossima retata. L’operazione Scarface lo conferma.