È morto a causa del Coronavirus Donato Sabia: Formia piange la scomparsa di un grande atleta che si allenava alla Scuola “Bruno Zauli” e che aveva rifiutato la facile gloria dicendo no al doping
Lo descrivono tutti schivo, timido, di poche parole. Eppure, anche dalle poche foto che circolano su di lui, quel sorriso non poteva che rivelare un’umanità purissima, senza sconti all’ipocrisia di cui, purtroppo, il mondo dello sport e dell’atletica sono pregni.
“Ieri sera (ndr: 7 marzo) è morto, a causa di questo maledetto virus, Donato Sabia – ha scritto il sindaco di Formia, Paola Villa – Donato Sabia ha vissuto presso la nostra Scuola Nazionale di Atletica Leggera “Bruno Zauli” e quindi a Formia per tantissimi anni, allenato dal Prof. Carlo Vittori. Persona amabile, mite, adorava le nostra città era innamorato del suo clima, delle sue eterne primavere, dell’aria fresca di mare e dei suoi colori. A Formia ha studiato e costruito tutti i suoi successi. Una splendida carriera di atleta velocista e mezzofondista. Nel 1984 fu medaglia d’oro nei 400metri indoor a Goteborg -Svezia. Nel 1984 e 1988 finalista olimpico negli 800 metri con un 5 e 7 posto. Sabia guidò il primo sciopero dell’atletica italiana che si ricordi, con un documento: “I finalisti della gara dei 400 hanno deciso all’unanimità di rinunciare a correre in segno di protesta contro la decisione che ha escluso la staffetta 4 per 400 dalla meritata partecipazione ai Giochi olimpici”. Sempre in prima linea, soprattutto nella lotta al doping, sempre modesto nell’approccio con i colleghi atleti, con la stampa, con il mondo dello sport. La nostra città non può non omaggiarlo e mandare un abbraccio grande a tutta la sua famiglia”.
Originario di Potenza, Sabia era un classe 1963, uno di quegli sportivi che calcava le scene quando, negli anni Ottanta, l’atletica italiana riusciva a regalare belle serate agli appassionati e a esprimere molti personaggi competitivi (Antibo, Bordin, Panetta ecc.), seppur dopo i fasti di Pietro Mennea, con cui condivise lo stesso allenatore, Vittori, le staffette e gli allenamenti. Anzi, per molti, Sabia, figlio del sud, era il Mennea lucano.
Correva i 400 metri e, sopratutto, gli 800, una storica e nobile specialità della Regina dello Sport, di cui detiene il terzo miglior tempo assoluto in Italia, quell’1’43”88 che lo colloca ancora oggi a pochi centesimi dallo storico record di Marcello Fiasconaro, eguagliato anni dopo da Andrea Longo – si ricorda di Sabia anche un record del mondo, quello nella distanza non riconosciuta dei 500 metri (1’00″08).
Una Regina, l’atletica, ammaccatta e sconquassata, poi, e anche allora, da un altro virus, che non ammazza (almeno non subito) come questo maledetto che il mondo combatte da gennaio, ma che agghiaccia e soffoca una delle pochissime cose per cui vale la pena di vivere e sognare: lo sport, per l’appunto. Parliamo del doping, ovviamente, a cui Sabia seppe dire di no e, come capita a chi sa dire di no, ne scontò le conseguenze, l’emarginazione e l’insuccesso nel breve termine.
In una recente intervista rilasciata il 26 gennaio scorso a “La Gazzetta del Mezzogiorno“, Donato Sabia si aprì definitivamente, lui abituato a lavorare e a rifiutare le pratiche dello show, e spiegò cosa avesse significato rifiutare le altre pratiche parimenti tossiche, quelle del doping: “Ero in ripresa a giugno 1987, arrivai secondo alla Coppa Europa di Praga sotto la guida di Sandro Donati. Poi l’ennesimo infortunio. Mi proposero di ricorrere al doping per continuare la carriera. Dissi “no” e denunciai il fatto dopo la conferenza stampa di presentazione della squadra per i mondiali di Roma quando un giornalista chiese al Ct della nazionale che fine avesse fatto Sabia. “Si è infortunato, gli abbiamo proposto di aiutarlo, ma non si è fatto aiutare. Ha paura del confronto con il pubblico italiano”. Non finì lì. L’Espresso raccolse la mia denuncia. In realtà avevo detto “no” al doping, un “aiuto” a quei tempi quasi “istituzionalizzato”. E da allora mi chiusero tutte le porte“.
Nella sua carriera fu letteralmente martoriato da infortuni (almeno tre quelli più importanti), per cui un amico una volta gli disse: “Devi accettare il tuo limite fisico, solo allora sarai in pace con te stesso. Il tuo sono stati i tendini di seta, preziosissimi, ma molto fragili“. Ecco perché Sabia dichiarò che il meglio di sé, quello che avrebbe potuto esprimere, non riuscì mai a concretizzarlo veramente.
Eppure, ciò che scotta di più, oltre naturalmente al fatto di aver perso un grande personaggio a causa del maledetto virus (cit. Paola Villa), è vedere come ieri e oggi le cose in Italia non sono cambiate. È stato lo stesso Sabia, sempre in quella famosa intervista a La Gazzetta del Mezzogiorno, a specificarlo a chiare lettere. Dopo la denuncia del doping infatti: “mi isolarono, bloccarono la mia carriera di tecnico in Italia. Andai a Malta dove per tre anni ho allenato la nazionale portandola alle Olimpiadi di Sidney nel 2000“. E ancora: “Nelle scuole ho sempre detto ai giovani che si può vincere rispettando le regole. Io ce l’ho fatta, possono farcela tutti. Poi c’è il talento, ma chiunque può sognare“.
Già, il rispetto delle regole, quel modo di comportarsi che sovente, in ogni ambito, viene bollato come ossessione, pesantezza, ingenuità, cocciutaggine. Sabia coltivava il sogno della sua Potenza che nel 2021 sarà Città europea dello Sport. Purtroppo, così come gli capitò in vita, un virus, tremendo alla stregua del doping, non gli consentirà di dare il suo eccellente contributo a quello sport così disperatamente bello qual è quello dell’atletica.
Scrisse il grande poeta di Montemurro, in provincia di Potenza, Leonardo Sinisgalli, che i lucani “non sono esibizionisti. Il lucano più di ogni altro popolo, vive bene all’ombra…Lucano si nasce e si resta“.