È noto che tutti i più nobili vini italiani, con pochissime eccezioni, sono nati tra il Lazio e la Campania e per la maggior parte crescevano a breve distanza dal mare.
Secondo Plinio il Vecchio, il primo posto della classifica dei vini più apprezzati si piazza il vinum Setinum che meritava l’attributo di imperiale, poiché era la bevanda preferita di Cesare Augusto e della maggior parte dei suoi cortigiani; il Setino era migliore di un altro vino molto apprezzato, ossia il Falernum, vino campano molto corposo.
“In tutti questi luoghi“, afferma Strabone nel libro V capitolo 3° della sua opera “Geografia”, databile tra il 14 e il 23 d.C., “si produce un vino straordinariamente buono; tra i più celebri ci sono il Cecubis, il Fundanum, il Setinum, i quali appartengono alla classe dei vini molto famosi“.
In un precedente articolo di Latina Tu è stata raccontata la genesi del mito del vino Cècubo, il caecubis tanto caro agli antichi Romani prima dell’avvento del vinum setinum nella scena enologica dell’anno zero. Entrambi, infatti, derivano dalla stessa vite, quella del Cècubo, pianta autoctona dell’ager caecubis, zona limitrofa alla città di Fondi. Il Cècubo, infatti, è una qualità di vite che evidentemente cresceva al massimo delle proprie potenzialità nelle lande molto prossime alla palude. Una geografia, quella al tempo dei romani, che prendeva i propri riferimenti spaziali anche dalle coltivazioni agricole, talvolta confondendo lettori dei classici di ieri e quelli delle news moderne sulle origini del Cècubo rispetto al vinum Setinum.
VINUM SETINUM E VINUM CECUBIS, PRODOTTI DELLA STESSA VITE
In un primo momento, la vite cècuba cresceva nelle paludi di pioppo al confine con il golfo di Amyclae, città mitica che gli antichi letterati collocavano proprio nei pressi di Fondi. La reputazione di miglior vino del Cècubo del sud pontino al tempo di Plinio (intorno al 70 d.C.) era già completamente sparita, in parte a causa dell’incuria coloni, e in parte a causa degli scavi per la realizzazione della Fossa di Nerone, canale navigabile che avrebbe dovuto estendersi da Baia (vicino Pozzuoli) a Ostia, circostanza che sottrasse terreno alle “viti maritate” al fusto dei pioppi. Leggendo “Storia antica di Sezze” di Vincenzo Tufo, nel capitolo dedicato al vino Setino, ad un certo punto si legge “quando non s’ebbe più il cecubo, in sua vece si usò il vino setino” e ciò ha indotto nell’equivoco che i due vini fossero due qualità distinte.
Dopo il declino del Cècubo nel sud pontino, la vite prodigiosa cavalcò di nuovo l’onda dei vecchi fasti a seguito della nuova messa a dimora nel territorio setino: Divus Augustus Setinum praetulit cunctis (Il divino Augusto preferiva il vino di Sezze) perché faceva bene allo stomaco e quindi lo voleva sempre sulla sua tavola. Il Cècubo cresceva sulle colline di Setia, sopra il Forum Appii, guardando in basso verso le paludi Pontine (Pendula Pomptinos quae spectat Setia campos). Si dice che Cesare Augusto costruì a Sezze il suo “Palatium” proprio per gustare in loco le virtù del Cècubo, conosciuto dall’imperatore come vinum Setinum.
Marziale in uno dei suoi Epigrammi dice che il vino di Sezze si beveva freddo, con il ghiaccio, allungato con l’acqua o con l’aggiunta di miele, ma soprattutto vecchio dai cinque ai quindici anni o ancora di più. Silla dette da bere ai suoi legionari il vino setino vecchio di quaranta anni. Galeno lo rappresenta come generoso, corposo ed inebriante, non arrivando alla maturità fino a quando non fu tenuto per molti anni: insomma, prodotto di eccellenza che sarebbe potuto essere un presidio Slow Food, un DOP, una delle tante locuzioni che al giorno d’oggi sono sinonimo di pregio nel circuito della produzione locale.
Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia riserva un tributo ai contatini ed agricoltori i quali, per produrre un vino che per tante motivazioni era unico nel suo genere, votavano la loro vita al sacrificio che però mai è risultato vano:
Digna opera quae in Caecubis Setinisque agris proficeret, quando et postea saepenumero septenos culleos singula iugera, hoc est amphoras centenas quadragenas, musti dedere! ac ne quis victam in hoc antiquitatem arbitretur, idem Cato denos culleos redire ex iugeribus scripsit, efficacibus exemplis non maria plus temerata conferre mercatori, non in Rubrum litus Indicumve merces petitas quam sedulum ruris larem. |
Degna opera si è portata avanti nella terre del Cècubo di Sezze, dove spesso si ottenevano 7 culleus [unità di misura] ogni quarto di ettaro, cioè 140 anfore di mosto! Affinché nessun contadino si veda penalizzato da queste vecchie tradizioni, stesso Catone scrisse delle centinaia di anfore ricavate da un acro di terra, si può dire che neppure i mari più solcati giovano ai mercanti, perché nessuna terra di approdo rossa sul mare indaco garantisce guadagno quanto un’operosa casa di campagna. |
DOPO IL CÈCUBO FONDANO, ANCHE IL VINUM SETINUM CADE NELL’OBLIO
Filippo Lombardini nel suo libro “Della Istoria di Sezze” (1876) così descrive la vite cècuba setina: “Tralcio color cannella, sufficientemente robusto a nodi non frequenti. Il colore della foglia è verde leggero, con la seconda pagina pulita, di forma è quasi rotonda con rilievi frequenti non molto sensibili. Il grappolo è sciolto, e di colore rosso cupo, gli acini sono ovali con peduncoli non molto corti, il sapore è zuccheroso. I vini hanno perduto l’antica rinomanza da quando si variò il luogo della coltura delle viti”.
Infatti, proprio il venire meno del tradizionale invecchiamento del vino, insieme allo spostamento delle vigne nella zona di Suso (le antiche vigne erano poste verso l’Appia, esposte a mezzogiorno ed il terreno alluminoso, siliceo, calcareo, mentre la vallata di Suso a nord di Sezze presenta un terreno calcareo-cretoso con ossido di ferro più arido di quello a pie’ di monte), considerata anche la richiesta sempre più crescente del nettare setino dalla capitale eterna, tutto ciò aveva contribuito a rendere meno prestigiosa la qualità del vinum Setinum.
Queste non sono le stesse cause che hanno portato il Cècubo del sud pontino alla stessa sorte, ma bisogna ricordare che coltivare uva e produrre vino, all’epoca di duemila anni fa, non era sicuramente una pratica agevole e ottimizzata come quella che si pratica ai giorni nostri.
VINUM SETINUM ESPORTATO NEL PROFONDO NORD
Alcuni scavi che la Società Friulana di Archeologia ha condotto all’interno di una villa rustica romana a Moruzzo, in provincia di Udine, hanno portato alla luce una targhetta metallica risalente al 106 d.C. con su inciso “Commodo et Ceriali Consulibus Vitis Setina”. Questo ha dato luogo ad una collaborazione tra il Gruppo in difesa dei Beni Archeologici di Sezze, le Università di Udine, Piacenza e Milano e la stessa Società friulana di Archeologia.
Ritrovamenti di anfore romane contenenti vino, come quelle di vino Setino recuperate negli scavi di Pompei, sono casi non così infrequenti in archeologia; ma ancor meno lo sono gli scambi delle piante di vite, sicuramente più difficili da testimoniare con reperti tangibili che svelino l’intenzionalità del gesto, cosa che la targhetta di Moruzzo sulla quale è chiaramente inciso “vitis setina” è riuscita a provare.
Grazie a questo ritrovamento potranno essere aperti scenari diversi del suo vitigno setino nell’antichità, soprattutto perché si dava per scontato che il Setino fosse noto solamente nell’area che oggi corrisponde al Lazio e a parte della Campania, come testimoniano alcune anfore di vinum setinum rinvenute durante gli scavi di Pompei con scritte indicanti la zona di produzione e l’annata.
RITROVATA UNA VITE DI CÈCUBO SETINO
Erano in molti a Sezze a credere di conservare ancora questo antico vitigno, ma le analisi molecolari effettuate dall’ARSIAL – Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio – hanno rivelato che nella maggior parte dei casi si tratta di ibridi americani introdotti a fine Ottocento a causa della fillossera che colì in maniera massiccia le coltivazioni di vite locali. In altri casi si tratta di interessanti ed antichi vitigni autoctoni già iscritti nel Registro Nazionale delle varietà di vite, tra i quali Lecinaro, Piedirosso, Grero, Montepulciano.
Soltanto un campione è risultato dall’analisi essere l’antico Cècubo, l’antico vitigno che prese il nome da Appio Claudio Cieco, il censore che ebbe il compito di seguire i lavori di realizzazione della Via Appia da Roma a Brindisi: Cècubo deriva infatti dall’unione delle parole latine “caecum” e “bibendum”, vale a dire il cieco che beve vino, perché Appio Claudio, al tempo censore, era un non vedente e amava particolarmente il vino cècubo prodotto nel sud pontino. Questa identificazione tra vino e territorio fu così forte tanto che la denominazione del vitigno fu trasposta su quelle terre in cui si produceva, le quali nella geografia classica divennero ager caecubis.
SEZZE, IL VINO E LA FRUTTA
Lo stemma che ancora oggi rappresenta il Comune di Sezze raffigura il Leone Nemeo sconfitto da Ercole il quale ne indossò la criniera (setole della criniera, Setis Nemeæi Leonis) e successivamente divenne il fondatore della città. Insieme al bianco leone, nell’araldica setina, compare anche una cornucopia ricolma di frutti che il grande felino stringe tra gli artigli. La terra di Sezze, infatti, era caratterizzata da una notevole produzione di frutta (come le diverse qualità di mele setine, frutti purtroppo dimenticati) e altre colture, varietà omologata negli anni da cultivar più produttivi o soppiantata da attività lavorative che esulano dall’agricoltura.
Perché, però, non ricostruire l’identità di questa che fu una grande città nella storia pontina ripartendo proprio dalle tradizioni che affondano le loro radici nella terra che l’ha sempre caratterizzata e resa potente?