CHIOSCHI MAFIOSI, I TESTIMONI ZOPPICANO E NON RICORDANO: “CI DICEVANO: SIETE PAZZI A PRENDERE IL PRIMO”

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Maurizio-Zof
Maurizio Zof

Primo chiosco sul lungomare di Latina, il processo antimafia prosegue con l’esame di altre vittime dei comportamenti della famiglia Zof

Prosegue il processo, dinanzi al primo collegio del Tribunale di Latina, composto dalla terna di giudici Soana-Bernabei-Brenda, che ha all’oggetto principale le minacce per il predominio dei chioschi sul lungomare di Latina e, in subordine, alcuni episodi di estorsioni e spaccio di droga consumatisi a Latina. Il processo deriva dall’indagine della Squadra Mobile di Latina coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia. Undici gli imputati: Alessandro, Fabio e Maurizio Zof, Giovanni Ciaravino, Davide Facca, Corrado Giuliani, Franco Di Stefano, Alessio Attanasio, Pasquale Scalise, Ahmed Jeguirim e Christian Ziroli.

Parte civile il Comune di Latina per tre capi d’imputazione in cui sono contestati reati (per turbativa d’asta col metodo mafioso) agli imputati principali: Alessandro e Maurizio Zof. Il collegio difensivo è composto dagli avvocati Giancarlo Vitelli, Alessia Vita, Sandro Marcheselli, Stefano Iucci, Giovanni Codastefano, Luca Amedeo Melegari, Francesco Vasaturo, Giovanni Capozio, Marco Lucentini e Moreno Gullì.

Alessandro Zof
Alessandro Zof

A luglio è iniziato il processo con l’escussione di diversi testimoni, gestori e partecipanti alle gare per la concessione dei chioschi sul lungomare di Latina.

Anche oggi, 11 novembre, sono stati ascoltati alcune persone che si sono interessati alla gestione dei chioschi sul lungomare. Testimonianze zoppicanti, infarcite di “non ricordo” e opacità, frammista a omertà, rispetto alla famiglia Zof e alla loro capacità intimidatoria. A parlare per prima, una donna che fece da consulente ai suoi figli per il bando “Latinadamare”. La loro società arrivò quarta nella selezione del bando relativo al primo chiosco e ottenne l’aggiudicazione perché gli altri rinunciarono. Il bando prevedeva anche la gestione di casa cantoniera a Borgo Sabotino e l’ex Tipografia con un contributo di oltre 300mila euro. Si tratta della madre degli attuali gestori del primo chiosco, dato a fuoco a maggio 2023 da mano rimasta ignota. In quel periodo, come noto, andarono a fuoco altri due chioschi sul lungomare di Latina

La testimone, interrogata dal pubblico ministero della DDA, Francesco Gualtieri, ha spiegato di aver voluto informazioni sul perché le altre società avessero rinunciato e fece il quesito a Lazio Innova rispetto alla cauzione. È il pubblico ministero a ricordarle che, invece, agli investigatori della Squadra Mobile, la donna aveva detto che in riferimento al primo chiosco c’erano state delle intimidazioni: “Una circostanza avvenuta dieci anni prima”, ha detto la donna, madre della titolare della società. La testimone ha detto più volte di non ricordare alcun clima pesante attorno all’aggiudicazione del primo chiosco, pur ammettendo di conoscere Maurizio Zof e la moglie, la quale le avrebbe detto che non erano interessati al primo chiosco.

Quattro anni fa, la donna dichiarò agli investigatori che temeva per i figli, perché in molti le dicevano di stare attenti proprio perché c’erano state delle intimidazioni: “La gente ci diceva: voi siete pazzi. Da mamma, ho avuto paura per i miei figli”.

La donna ricorda che nel montaggio del primo chiosco passò Maurizio Zof, reclamando la restituzione di alcuni cavi elettrici: “Parlò con gli operai e mi dissero che chiedeva dei cavi. Solo che non c’era niente e probabilmente erano stati tolti prima poiché pericolosi”. In realtà, sarebbe stata anche la figlia della donna a dire alla madre che più volte era passato Maurizio Zof in bicicletta: “Io però non l’ho mai visto, né mi ricordo particolarmente bene. Me lo hanno solo riferito. Quando seppi che era passato, mi preoccupai per tutto quello che dicevano, ma non presi nessuna iniziativa”.

A quel punto, la donna chiese al suo compagno, ex poliziotto, di presenziare il luogo dove c’erano i figli della donna: “Attivammo anche la vigilanza notturna”. Tuttavia, più di qualcuno disse alla donna che vicino ai chioschi ci sarebbero stati personaggi poco raccomandabili. Fu proprio lei a dire agli investigatori che alcuni giovani le dissero che c’erano amici di Alessandro Zof bazzicare in quel luogo: “Ma io non ricordo nulla”. I “non ricordo” della donna, in un’aula in cui sono presenti Zof e gli altri imputati, sono piuttosto esemplificativi. “Posso dire che in quel momento avevamo iniziato ad avere paura, ma non posso dire cose che non ricordo”.

Il pubblico ministero chiede alla donna dell’incendio doloso che distrusse il chiosco a maggio 2023, poco prima delle elezioni amministrative: “Ci avvertirono poco dopo che mia figlia era andata via”. La donna ammette: “Ho avuto più di qualche sospetto. Avevo dubbi che fossero stati alcuni indiani”. Una circostanza che non era emersa in fase d’indagine. Ciò che è certo che i gestori furono risarciti dall’assicurazione: “Con la moglie di Zof avevamo un buon rapporto, prendevamo un caffé. Una volta, però, presso la banca, mi insultò e mi disse puttana. Penso ce l’avesse con me”.

Interrogata in contro-esame dall’avvocato Lucentini, la donna, però, è netta: “Non ho mai ricevuto minacce, né prima, né dopo l’aggiudicazione”. Anche in questa udienza, come nella scorsa, la testimone, uscendo dall’aula, ha salutato Zof e la madre.

Il secondo testimone di giornata è un giovane, non originario di Latina, che insieme a un gruppo di amici costituirono la società Latina Young e si interessarono al bando: “Fu assegnato a qualcuno prima di noi che rinunciarono e quindi il chiosco fu assegnato a noi”. Il giovane imprenditore ha detto che non si fidava di intraprendere una iniziativa del genere, anche perché lavorava a Roma: “Inoltre, ho scoperto che il bando prevedeva un prestito oneroso da fare. E scoprii che il Topo Beach era stato un bene confiscato alla mafia”. In realtà, il primo chiosco non è stato oggetto di confisca.

Anche al giovane fu riferito che il primo chiosco era difficile: “Mi sconsigliarono perché magari ti minacciano o ti vengono sotto casa. Erano tutte supposizione tra ragazzi. Qualcuno mi diceva che la precedente gestione era degli zingari di Latina. Mi dicevano mafia di Latina”. Il testimone, sollecitato dalle domande del pubblico ministero Gualtieri, spiega di aver proposto ad alcune persone di lavorare presso il chiosco: “Tutti mi dicevano: figo, ma fai attenzione”. Anche sul rischio incendi dei chioschi, il testimone riferisce che più di una persona gli aveva detto che da Latina e Sabaudia “la mafia era dedita a bruciare i chioschi per intimidire”.

Anche il terzo testimone, che si era attivato con una società. Dopo aver vinto, anche loro rinunciarono alla gestione del chiosco: “Rinunciammo per ragioni economiche”. È il pubblico ministero Gualtieri a ricordare al testimone di aver detto a sommarie informazioni che la persona che gestiva il primo chiosco “era poco raccomandabile”. Il testimone, abbastanza intimidito, ammette: “Sì probabilmente era una persona pericolosa”. Lo ribadisce più volte: “Un nome particolare non è arrivato”. Poi, l’ammissione: “Arrivava il nome del Topo, ma non saprei neanche che faccia abbia”.

Tra i testimoni anche la figlia della consulente che ha testimoniato a inizio udienza. La giovane gestisce il primo chiosco, l’ex Topo Beach: “In tanti mi chiedevano se fossi la figlia del Topo e io rispondevo semplicemente di no”. La ragazza sostiene di non conoscere nessuno degli Zof, né di aver avuto conoscenza della loro fama a Latina. “A maggio 2023, ero appena andata via. Dopo 20 minuti il chiosco andò a fuoco, mi spaventai un po’, pensando se ci fossi stato io all’interno. Ho solo pensato che l’incendio era rivolto al chiosco. In quel periodo, andarono a fuoco altri chioschi e ho pensato che fosse rivolto a tutti”.

Anche un altro testimone, che partecipò al bando della concessione del primo chiosco, ha relazionato sulla sua esperienza, insieme ai suoi due soci dell’epoca. Il giovane ha spiegato di aver rinunciato alla possibilità di gestire il chiosco perché non se la sentiva di diventare un imprenditore: “Mi sentivo quasi in obbligo, ma non dormivo la notte perché non mi sentivo a mio agio con quell’impresa. Non volevo fare l’imprenditore”. Anche gli altri due soci abbandonarono dopo la rinuncia del primo: “Con uno dei amici i rapporti si incrinarono. Io decisi di lavorare per Poste Italiane, dopo aver vinto una selezione”.

E sul Topo Beach cosa sa?, chiede il pm Gualtieri: “Ho saputo dai giornali che la loro famiglia era associata al nome Topo ed erano riconducibili a vicende criminali. Tra di noi parlammo forse, soprattutto quando avremmo voluto andare fino in fondo. Parlammo della sicurezza, ma non ricorso se parlammo della famiglia Zof. Rispetto al chiosco, ho saputo che c’erano state minacce del precedente gestore, ossia, il Topo, che avrebbe intimidito. Apprendemmo che c’erano state rinunce sull’aggiudicazione”. Emerge solo che a “livello di battuta si faceva riferimento al Topo. Ma io non avevo paura”.

Anche l’altro socio del testimone interrogato spiega che nessuno li avrebbe messi in guardia dai pericoli derivanti da possibili minacce del precedente gestore. Ad ogni modo, la ragione della rinuncia sarebbe ascrivibile al fatto che il primo dei tre soci rinunciò per aderire alla proposta di Poste Italiane. Solo uno dei tre ammette davanti al pm che chiese al socio rinunciante se avesse ricevuto delle minacce: “Gli chiesi delle minacce perché, da un giorno all’altro, lui aveva rinunciato. C’erano state parole tra di noi sulla possibilità di essere vittime di attentati incendiari”.

In realtà, agli investigatori, il testimone aveva dichiarato di aver avuto informazioni di pericolo sul primo chiosco e sulla famiglia Zof. Alla domanda del pm Gualtieri se conosca o meno la famiglia, il testimone risponde balbettando: “Credo di sì”.

Si riprende al prossimo 13 gennaio con altri dieci testimoni dell’accusa.

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IL PROCESSO E LE INDAGINI – A giugno 2024 furono in tutto dodici gli avvisi di conclusione indagine per il procedimento penale che il 30 gennaio 2024 si è concretizzato in otto misure cautelari nei confronti di altrettante persone per i reati di turbata libertà degli incanti ed estorsione aggravati dal metodo mafioso, diversi episodi di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, nonché per trasferimento fraudolento di valori. Uno dei destinatari dell’avviso conclusione indagini era l’imprenditore di Latina, Alfonso Attanasio, il 40enne arrestato per furto di energia elettrica operato dai suoi supermercati a Latina e Roma. Attanasio, però, è uscito dal procedimento in quanto la sua posizione è stata archiviata.

Al centro dell’indagine sui chioschi, portata a termine dalla Squadra Mobile di Latina, il primo chiosco sul lungomare di Latina, lato Rio Martino, denominato ex Topo Beach; indagando gli investigatori hanno fatto emergere anche alcuni episodi di spaccio ed estorsione slegati dagli interessi della famiglia Zof sul litorale del capoluogo.

Ad essere raggiunti dall’avviso di garanzia anche gli unici a finire in carcere (per gli altri misure di domiciliari) lo scorso 30 gennaio: il 31enne Ahmed Jegurim e il 30enne Christian Ziroli che, però, non hanno nulla a che vedere con le trame che si sono svolte dietro l’assegnazione del primo chiosco sul lungomare di Latina: vale a dire il noto “Topo Beach” che, nel 2016, con l’avvento dell’amministrazione Coletta, fu rimesso a gara, dopo decenni. Per i due trentenni accuse di spaccio ed estorsione nell’ambito del mercato della droga.

Ai tre Zof sono contestati reati aggravati dal metodo mafioso, in ragione del legame che soprattutto Alessandro Zof, secondo la DDA, ha con il clan Travali/Di Silvio. Zof, come noto, è stato assolto nel processo Reset insieme a tutti gli altri imputati del clan Travali/Di Silvio accusati di aver messo in piedi un’associazione mafiosa dedita al narcotraffico.

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