DIRTY GLASS, LE ACCUSE DEL COLLABORATORE A IANNOTTA E ALTOMARE. L’IMPRENDITORE DENUNCIA TUTTI: “PENTITI E INQUIRENTI”

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Luciano Iannotta e Natan Altomare, l'uomo considerato dagli inquirenti il suo braccio destro
Luciano Iannotta e Natan Altomare, l'uomo considerato dagli inquirenti il suo ex braccio destro

Dirty Glass, il processo che vede imputato l’imprenditore di Sonnino Luciano Iannotta prosegue: conclusa la testimonianza del collaboratore di giustizia

È ripreso il processo – dinanzi al terzo collegio del Tribunale di Latina, composto dai giudici La Rosa-Zani-Romano -, denominato “Dirty Glass” con il proseguo dell’esame del collaboratore di giustizia, Renato Pugliese, il quale, secondo l’accusa, insieme ad Agostino Riccardo e Luciano Iannotta, quest’ultimo in qualità di mandante, avrebbe compiuto una estorsione ai danni del rappresentante della Ferrocem Prefabbricati di Latina (una società riconducibile alla galassia imprenditoriale dell’imprenditore di Sonnino, Iannotta) a cui chiesero di pagare 80mila euro.

Renato Pugliese, come noto, è il primo “vero” pentito della storia criminale di Latina che tante pagine di verbale ha riempito parlando di Luciano Iannotta, difeso dall’avvocato Mario Antinucci, e dei suoi rapporti indicibili con i clan rom di Latina. Il processo, come noto, deriva dalla maxi inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, rappresentata oggi dal pubblico ministero Francesco Gualtieri.

A luglio, prima della pausa estiva del Tribunale di Latina, Pugliese aveva ragguagliato sulla estorsione commessa ai danni di Vincenzo Cosentino (non indagato) originario della provincia di Catania, il quale, secondo Iannotta, era debitore con lui di 80.000 euro – invece, secondo Cosentino, lui trattenne una cifra di 84mila euro proprio perché non era stato pagato per la sua attività manageriale. Pugliese aveva spiegato, più generalmente, delle modalità con cui entrò in contatto con Luciano Iannotta: sia lui che Agostino Riccardo sarebbe stati mandati dall’imprenditore di Sonnino da Umberto Pagliaroli, il figlio del patron dell’ex azienda che si occupava di vetri, entrata nell’inchiesta “Dirty Glass” in quanto Iannotta è accusato di bancarotta. Secondo l’accusa nell’indagine della DDA di Roma e della Squadra Mobile di Latina, Iannotta, in concorso con altri imputati, si sarebbe procurato un ingiusto profitto recando un pregiudizio ai creditori della Pagliaroli Vetri.

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Il pubblico ministero Gualtieri ha continuato il suo esame chiedendo a Pugliese della Pagliaroli Spa: “So che apparteneva a Iannotta, solo che era rimasto il nome del padre. Iannotta ci disse che era sua e che era fallita, ma grazie al suo intervento la stava salvando. Ci disse che il figlio di Franco Pagliaroli, Umberto, aveva fatto debiti per 35-40 milioni di euro e che lui era il capo, comandava lui. Quando io e Agostino Riccardo ci recammo alla Pagliaroli Spa, ci dissero che il capo era lui, anche se in quel momento stava a Londra”.

Iannotta “ci disse che stava tirando su l’azienda. Iannotta campava il padre di Pagliaroli, dandogli il mensile così da fargli vivere il resto dei suoi giorni. Io ricorso che tutti i debiti accumulati del tempo erano dovuti alle campagne elettorali della moglie del figlio, la politica Gina Cetrone, e per la bella vita che facevano”. Nel 2017, Pugliese, a verbale, come ricorda il pm Gualtieri, disse che “qualsiasi soldo che uscisse dall’azienda erano suoi e non da parte di Pagliaroli né dalla figlia di quest’ultimo”. Insomma, secondo l’accusa, corroborata dalle parole del pentito, la società Pagliaroli era di fatto riconducibile a Iannotta.

Secondo Pugliese, però, Iannotta avrebbe creato società per riciclare denaro: “Quando facemmo il recupero crediti a Cosentino, lui ci disse che Iannotta gli aveva fatto una società ad hoc verso la quale transitavano soldi di cui non conosceva l’origine. Iannotta mascherava i soldi, fu proprio a Cosentino a dirci che era una testa di legno“.

Il pm Gualtieri ha chiesto successivamente a Pugliese di Natan Altomare: “Lo vedevo spesso con Gianluca Tuma e mio padre, Costantino Cha Cha Di Silvio, di cui era amico. L’ho conosciuto come colletto bianco e aveva interessi con Tuma con cui doveva aprire una società. Altomare faceva da filtro tra criminali e burocrazia, riuscendo ad aprire attività. Se tu dovevi parlare con un politico ti rivolgevi a lui e Natan si muoveva per fare da filtro. Dopo gli arresi di “Don’t Touch”, ci incontravamo e mi dava dei soldi, anche 500 euro a volte; lui era molto guardingo e non voleva sputtanarsi parlando con me, quindi era molto riservato. In tutto mi diede 6-7mila euro in diverse circostanze e mi diceva che se mi servivano soldi mi garantiva che lui ci sarebbe stato. Quando Altomare fu scarcerato, mi disse che fece un orologio Rolex al suo avvocato difensore Pasquale Cardillo Cupo, era un regalo. All’epoca Cardillo Cupo dava soddisfazioni, era bravo e mi fece scarcerare. So che Altomare, inoltre, aveva un businness degli oli esausti, ma non me ne occupai”.

Secondo quanto raccontato da Pugliese: “Altomare, una volta, vicino Palazzo M, fu salutato da due finanzieri che gli dissero che erano contenti della sua scarcerazione”. “Altomare – prosegue Pugliese – entrava con mio padre allo stadio. So che aveva dei rapporti con Pasquale Maietta, ma non si stavano simpatici. So che non c’era stima per cose che non conosco”. Ad ogni modo “Natan aveva disponibilità economiche di livello. Faceva la bella vita e faceva filtro investendo soldi di pregiudicati, come Tuma, facendoli passare da società e terze persone. Ripuliva soldi“.

Per quanto riguarda Umberto Pagliaroli, Pugliese conferma di averlo conosciuto tramite Agostino Riccardo: “Avevamo fatto la campagna elettorale per Gina Cetrone che sosteneva Corradini sindaco. Travali e Viola volevano prendere la sua campagna elettorale, con l’appalto dei manifesti. Ma, alla fine, fummo noi del clan Di Silvio a ottenere il cosiddetto appalto, attaccando i manifesti. A Terracina, per lo stesso Procaccini c’erano personaggi della malavita locale che attaccavano manifesti”. Pugliese ricorda fatti contenuti nel processo Cetrone, tra cui lo scontro tra loro, all’epoca clan Di Silvio, e i Marano legati al clan di camorra “Licciardi” da Secondigliano.

Pagliaroli – spiega Pugliese – avrebbe affidato incarichi a Riccardo e, quindi, anche a lui. Come quando disse loro di minacciare un concorrente nel settore dei vetri che vendeva il prodotto a prezzi concorrenziali, oltreché ad aver agito contro un negozio di camice: “Questo signore, titolare dell’attività, mi pagò in camice. Pagliaroli mi aveva detto di andare in questo negozio vicino a Piazza del Popolo, a Latina, perché c’era da fare un recupero crediti. Mancando alcuni soldi, mi feci dare dei capi d’abbigliamento”.

“Iannotta era a conoscenza dei rapporti tra noi e Umberto Pagliaroli. Sapeva che come clan Di Silvio avevamo fatto la campagna elettorale per la moglie, Gina Cetrone. Ma gli interessava poco perché Umberto era stato una disgrazia per la sua famiglia. I loro rapporti non erano buoni. Umberto Pagliaroli però aggredì Iannotta dicendo che stava svuotando la società del padre sfruttandolo, al contrario Iannotta gli diceva che doveva stare fuori: non voleva neanche che andasse dal padre Franco perché era responsabile del fallimento della società. Alla fine Iannotta gli tirò addosso un computer. Il padre Franco Pagliaroli, che era affranto ed esausto e chiedeva aiuto a Luciano, voleva denunciare il figlio e se non fosse stato per Luciano Iannotta e il suo intervento lo avrebbe fatto”.

A Latina, “ci occupammo anche di Franco Cifra che aveva accettato di ricevere un bonifico di 3500 euro, offrendo il catering. In realtà ci diede indietro 3mila euro. La fattura era falsa perché serviva per pagarci il conto di una estorsione riferibile a Cosentino”. Invece, per quanto riguarda il carabiniere Alessandro Sessa: “So che era un appartenente alle forze dell’ordine”. Di De Gregoris, “so che era una persona perché c’era un terreno da sbloccare, ma l’ho conosciuto solo per nome. Ci occupammo di lui in una riunione a Campo Boario insieme ad Armando Di Silvio. Iannotta ci disse che però i soldi, circa 50mila euro, ce li avrebbe dati lui. Quando fu sbloccato il terreno, Iannotta pagò noi e ai Di Silvio circa 10mila euro in contanti fuori dal ristorante a Sonnino tramite una ragazza che lavorava nel locale, dopodiché, in altre circostanze, diede il resto di 25mila euro (15mila erano stati tolti perché destinate ad altre persone). La busta con i soldi al ristorante la ragazza la diede in mano a Ferdinando Di Silvio detto Pupetto, mentre il resto del denaro fu inviato a questi due fratelli che vantavano il credito con De Gregoris. Sono informazioni che ho ricevuto da Iannotta e da Armando Di Silvio detto “Lallà”.

Pugliese è stato contro-interrogato dagli avvocati Pasquale Cardillo Cupo per Altomare e Mario Antinucci per Ianotta, ossia i due uomini tirati in ballo dalle dichiarazioni rese in aula. L’avvocato Cardillo Cupo, peraltro, ha chiesto conto dell’orologio Rolex, negando di averlo mai avuto. L’avvocato Antinucci ha svolto un lungo controesame, chiedendo al collaboratore anche delle dinamiche avvenute durante le estorsioni, mettendo in evidenza i contrasti tra Riccardo e Pugliese in quanto il primo si “prendeva le stecche sui recupero crediti, nascondendo la circostanza”. Diverse le domande che hanno scandagliato minuziosamente, verbali alla mano, tutte le dichiarazioni di Pugliese. In particolare, è stato approfondito il primo incontro tra Iannotta e il duo Riccardo-Pugliese, inviati da Umberto Pagliaroli per chiedere conto della Pagliaroli spa. “La prima volta ci incontrammo e Iannotta respinse le nostre minacce, dicendoci per telefono da Londra che era il diavolo. Successivamente, ci fu un secondo incontro, stavolta dal vivo, dopo qualche giorno, e in quell’occasione Iannotta picchiò Agostino Riccardo”. Numerose le contestazioni dell’avvocato Antinucci anche rispetto alla cosiddetta falsa fattura di Cifra. Il collaboratore ha spiegato che Iannotta, dopo i primi due burrascosi incontri, si sarebbe servito di Riccardo e Pugliese in quanto affiliati del clan Di Silvio: “Ci chiedeva di recuperare i crediti perché appartenevamo al clan Di Silvio, altrimenti non ci avrebbe interpellato per questo, ma ci avrebbe detto di andare a lavorare”.

Non è mancata la puntualizzazione sulla circostanza per cui Gianluca Di Silvio, figlio di Armando detto “Lallà” chiese a Iannotta di battezzare il figlio: “Luciano disse di sì e gli uscirono le lacrime commuovendosi. Alla fine però il battesimo non si concretizzò perché me lo dissero Gianluca e Ferdinando Di Silvio”.

Finito il contro-esame di Pugliese, come da prassi in questo processo, Luciano Iannotta, che ha formalmente rinunciato alla prescrizione sulla bancarotta, profilando la rinuncia per tutti gli altri capi d’imputazione, ha rilasciato le sue usuali spontanee dichiarazioni: “Da otto anni di illegalità, il pubblico ministero Gualtieri sta ripristinando la verità. Mi domando per la Procura e per la DDA chiunque voglia estorcere Luciano Iannotta è immune. Io ho oltre 24 milioni di euro di debiti che dovrò pagare. Sto facendo la mia battaglia perché la sto facendo per i più deboli che, in mano a questa giustizia, si impiccherebbero”. Poi, le accuse di Iannotta: “Formalizzo le denunce di estorsione a Pugliese, Riccardo e Pagliaroli. Formalizzo le denunce per frode processuale contro gli operanti di Polizia e chiedo la trasmissione degli atti alla Procura competente. Inoltre ho querelato il curatore fallimentare La Brocca”. Iannotta, inoltre, sostiene di aver conosciuto Pugliese e Riccardo il 6 luglio 2016, a differenza di quanto hanno riferito gli ex affiliati al clan Di Silvio: “Dissi loro che sono il diavolo perché rispondo così e divento chi non sono davanti a questi personaggi”. Ammette anche le botte ad Agostino Riccardo: “Gli ho spaccato una sedia sulla schiena. Se qualcuno vuole fare una estorsione a me e alla mia famiglia io faccio così, lo farei anche contro un criminale con la divisa”.

Su Franco Pagliaroli, l’imprenditore ribadisce: “Fu lui a chiedermi aiuto per sollevare l’azienda. Io gli diedi una mano, prendendo in mano i bilanci per appurare la situazione. Voglio confermare che dentro la Pagliaroli io ero padrone e direttore generale tanto che ci sono i bonifici che facevo dal giugno 2013 verso l’amministrazione giudiziario”. Iannotta sostiene di aver chiuso il flusso di soldi verso il figlio e la figlia di Pagliaroli. Ripreso dal presidente del collegio del Tribunale sui tempi e le modalità di dichiarazioni, Iannotta non demorde e continua a parlare della Pagliaroli spa. Alla fine, Iannota tiene a dire di non aver mai battezzato il figlio di Gianluca Di Silvio: “Non ho mai fatto battezzare i miei figli, figuriamoci se battezzo quelli degli altri”.

Prima della conclusione dell’udienza, il pubblico ministero puntualizza sulle scritture contabili della Pagliaroli rinvenute dopo dieci anni in un box sequestrato. Una circostanza emersa nella scorsa udienza. Scritture contabili che rappresenterebbero una prova a favore di Iannotta: fuori udienza, è stata prodotta una copiosa documentazione da parte della difesa, con tanto di audio-video ripresa che riprendono il rinvenimento. Il pm Gualtieri chiarisce che, ad aprile 2025, l’amministratore giudiziario del patrimonio Iannotta confiscato aveva spiegato che erano pervenute missive strane le quali denunciavano anche la presenza del figlio di Iannotta nei pressi dei beni confiscati. Secondo il magistrato, quei documenti rinvenuti (che coinvolgono il notaio Enzo Becchetti, destituito dall’ordine nel 2025) chiesti oggi avvalorano altresì le accuse ne confronti dell’imprenditore, peraltro sottolineando che solo oggi la difesa vuole una caledarizzazione delle udienza, dopo aver allungato, nel corso degli anni, il processo con richieste di ricusazione del collegio del Tribunale e istanze di competenza del medesimo Tribunale.

Alla fine, dopo tre ore di una udienza intensa, il collegio del Tribunale ha stabilito le date di rinvio del processo, pur facendo presente che sono pendenti 207 procedimenti (e il processo “Dirty Glass” non ha imputati ristretti da qualche misura): 6 novembre, 18 dicembre e 16 gennaio.

IL PROCESSO “DIRTY GLASS” – Un processo di rilievo, scaturito da una indagine imponente della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e della Squadra Mobile di Latina, che, come scritto in questi anni più volte, è arenato, tanto che nell’ultima udienza (non) celebrata a settembre, lo stesso presidente del terzo collegio del Tribunale di Latina, Mario La Rosa, ha esclamato la frase inequivocabile: “Dire che è bloccato è poco”.

Ad essere imputati, oltreché all’imprenditore, Luciano Iannotta, ci sono quelli che, dalla Direzione Distrettuale Antimafia e dalla Squadra Mobile di Latina, sono ritenuti essere i suoi sodali di un tempo, tra affari, malavita, criminalità organizzata e persino servizi segreti: Luigi De Gregoris, Antonio e Gennaro Festa, i carabinieri Alessandro Sessa e Michele Carfora Lettieri, Pio Taiani e Natan Altomare. Parti civili l’associazione antimafia “Antonino Caponnetto” e, per l’appunto, la curatela fallimentare della società “Global Distribution”.

I reati contestati, a vario titolo, sono molteplici: in materia fiscale e tributaria, violazioni della legge fallimentare, estorsione aggravata dal metodo mafioso, intestazione fittizia di beni, falso, corruzione, riciclaggio, accesso abusivo a sistema informatico, rivelazioni di segreto d’ufficio, favoreggiamento reale, turbativa d’asta, sequestro di persona e detenzione e porto d’armi da fuoco. Senza contare che uno dei reati più gravi contestati – il sequestro di persona – è già saltato per via della Legge Cartabia. Una legge che prevede la non procedibilità nel caso in cui non vi sia una querela della vittima, in questo caso delle due vittime.

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