Operazione Movida, estorsioni, rapina e violenze col metodo mafioso: condannato in via definitiva il figlio più giovane del capo famiglia “Romolo” Di Silvio
Un’altra vittoria per la Direzione Distrettuale Antimafia in merito al riconoscimento dell’aggravante mafiosa nei confronti del clan Di Silvio. La sentenza irrevocabile pronunciata dalla Cassazione negli scorsi giorni a carico del 26enne Ferdinando Di Silvio detto Prosciutto, figlio del boss e capo famiglia Giuseppe Di Silvio detto “Romolo”, irrobustisce le accuse della magistratura che considerano, ormai da anni e dopo svariate sentenze, il clan Di Silvio, in questo quello dell’ala stabilitasi nel quartiere Gionchetto di Latina, un sodalizione mafioso.
L’operazione da cui è scaturita la sentenza – il cui primo grado, poi confermato in Appello (e adesso dalla Cassazione), è stato stabilito a giugno 2022 con la condanna di Prosciutto a 4 anni e 8 mesi d reclusione, più 1200 euro di multa e l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni – è denominata “Movida” per cui, ad aprile 2022, furono condannati gli altri coinvolti, tra cui lo zio di Prosciutto, Costanzo Di Silvio, e suo fratello Antonio “Patatino” Di Silvio. Cuore dell’inchiesta e del processo sono le attività delittuose del ramo più militarizzato della famiglia Di Silvio incentrate in estorsioni e rapine. L’operazione fu eseguito, con il coordinamento della DDA, dalla Squadra Mobile di Latina a dicembre 2020.
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A giugno 2022, il Giudice per l’udienza preliminare di Roma Francesca Ciranna ha condannato per il reato di rapina aggravata dal metodo mafioso, commessa in concorso con il fratello “Patatino” e il lo zio Costantino detto “Costanzo”, Ferdinando “Prosciutto” Di Silvio alla pena di 4 anni e 8 mesi di reclusione, più 1200 euro di multa e l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni.
Il giovane “Prosciutto” è stato coinvolto in un episodio nel quale ha agito da spalla, insieme allo zio Costanzo Di Silvio, per conto del fratello più grande Antonio detto Patatino. I Di Silvio, infatti, approfittando della fama criminale del nome – per questo elemento è stata riconosciuta l’aggravante mafiosa – avevano offerto la protezione a un uomo residente nelle case popolari di Via Pionieri della Bonifica, a Campo Boario, che si sarebbe sentita minacciata da un giovane rampollo di un’altra nota famiglia coinvolta in più fatti criminali, i Baldascini. Dall’uomo, diventato vittima, pretesero il pagamento di 800 euro, poi diventati 700 euro in due tranche. Un episodio avvenuto tutto nel pomeriggio di un giorno di fine maggio del 2020.
Tutti gli indagati di “Movida”, appartenenti alla famiglia Di Silvio, sono stati coinvolti con l’accusa di associazione mafiosa anche nell’indagine Scarface il cui processo, dopo condanne pesanti in primo grado, è già incardinato presso la Corte d’Appello di Roma: il sostituto procuratore generale ha proposto agli imputati il concordato. Condannati in primo grado tutti i maggiori appartenenti del clan per associazione mafiosa.
Armi, gestione delle piazze di spaccio, estorsioni e imposizioni di pizzo col metodo mafioso: sono queste le principali attività rese evidenti dall’operazione “Movida Latina” (una sorta di antipasto della maxi indagine denominata “Scarface”) che prende il nome dall’area che questo ramo della famiglia Di Silvio aveva assoggettato al suo capriccio: la cosiddetta Zona Pub di Latina.
Ora, la Cassazione conferma la condanna di “Prosciutto”, ribandendo che la sentenza di Corte d’Appello che ha conferma la condanna di primo grado “ha messo in luce 17 plurimi elementi dai quali desumere la sussistenza della suddetta aggravante mafiosa, mostrando di fare corretto riferimento alla giurisprudenza di legittimità. In particolare è stato evidenziato come la imposizione della “protezione” costituisca di per sé una condotta tipicamente mafiosa iperché evocativa di un potere di controllo del territorio riconducibile solo a gruppi criminali organizzati capaci di contrastare la potenza criminale antagonista ( nel caso di specie ) quella dei Baldascini). In effetti, solo una organizzazione criminale potentemente radicata nel territorio e per questo capace di controllarne le vicende criminali, può offrire siffatto “servizio” alle vittime, sostitutivo di quello fornito dallo Stato e che un soggetto, da solo, non potrebbe mai garantire”.
Nel caso in esame – si legge – le modalità sia della richiesta estorsiva, avanzata materialmente da Di Silvio Antonio alla presenza costante di Di Silvio Ferdinando, sia della rapina cui l’imputato ha contribuito materialmente accerchiando la vittima, rivelano la pregnante valenza intimidatoria delle condotte criminose, amplificata dai riferimenti espressi al gruppo familiare di appartenenza, effettuati in più occasioni da Di Silvio Antonio”.
Infine, nella sentenza “si fa riferimento puntuale alle modalità tipicamente mafiose della condotta, realizzata sfruttando l’appartenenza dell’autore della richiesta al clan Di Silvio, di cui le vittime erano consapevoli conoscendo pure le vicende giudiziarie e quelle relative alle dichiarazioni dei pentiti”.