ZUPPARDO NON PIÙ CREDIBILE: ECCO PERCHÈ GLI È STATO REVOCATO IL PROGRAMMA DI PROTEZIONE

Maurizio Zuppardo
Maurizio Zuppardo

Lo scorso 25 settembre Maruzio Zuppardo perde la tutela dello Stato: da quella data non più collaboratore di giustizia

La notizia della fine del rapporto tra Zuppardo e lo Stato è emersa nel corso di una udienza del processo “Reset”, che vede alla sbarra 30 imputati, quasi tutti facenti parte del clan Travali/Di Silvio.

A comunicare il nuovo scenario fu, in quell’udienza del 18 ottobre scorso, lo stesso Maurizio Zuppardo, il 48enne di Latina, detto “Fagiolo”, il quale si è rifiutato di testimoniare nel processo “Reset”, proprio perché non si è sentito più tutelato dopo che la Commissione Centrale del Ministero dell’Interno aveva deciso che non era più un collaboratore di giustizia.

Una collaborazione con lo Stato spesso difficile Tra i vari passaggi molto discussi, sicuramente il procedimento penale scaturito dalle sue dichiarazioni che hanno fatto sì che, ad essere indagati, ci sono tuttora sei Carabinieri del Comando Provinciale di Latina, accusati di avergli dato la droga in cambio di soffiate. Peraltro lo stesso Zuppardo, in una udienza del succitato procedimento, datata novembre 2023, avrebbe dichiarato di essere stato avvicinato e minacciato da uno dei sei Carabinieri.

Nell’udienza di “Reset”, Zuppardo ha spiegato di non voler rispondere alle domande del pubblico ministero della DDA di Roma, Luigia Spinelli, in quanto non si sente più tutelato dallo Stato. Ha paura, Zuppardo, di riferire sul clan Travali poiché, non essendo più sotto la protezione dello Stato, si esporrebbe troppo a eventuali ritorsioni. Senza contare che sempre in quell’udienza, Zuppardo ha dichiarato di aver ricevuto diverse minacce, anche da parte dell’avvocato di Latina, Alessandro Mariani, che assiste uno dei Carabinieri accusati da Zuppardo. Lo stesso Mariani, peraltro, in una udienza di quel procedimento, è stato minacciato da Zuppardo il quale disse al legale di pensare a sé e alla sua famiglia.

Insomma, il rapporto tra giustizia e Zuppardo è stato turbolento, anche quando l’uomo era passato a collaborare con la giustizia, fornendo peraltro testimonianze utilizzate dalla stessa DDA di Roma in diverse inchieste, tra cui Movida e Scarface sul Clan di Silvio capeggiato da Giuseppe Di Silvio detto “Romolo” (emesse già diverse condanne) e Reset che vede ad oggi il processo per mafia al clan retto da Costantino “Cha Cha” Di Silvio e dai fratelli Angelo e Salvatore Travali.

Eppure, come ricostruito dalla Commissione Centrale del Ministero dell’Interno, che ha deciso di revocare il programma speciale di protezione lo scorso 25 settembre, Zuppardo non ha lesinato comportamenti irrituali.

Una collaborazione molto faticosa quella di Zuppardo (iniziata a ottobre 2019), sin da subito, in quanto egli stesso non si è mai ritirato a vita privata, anzi, ha avuto una intensa vita social tra Facebook e TikTok, senza contare che a giugno, sempre in una udienza del procedimento sui Carabinieri “infedeli”, l’avvocato Mariani denunciò il fatto che Zuppardo aveva rivelato, tramite i social, il luogo della sua località protetta a Riva del Garda.

Non solo, a Zuppardo, già nel luglio 2022, viene contestato di avere avuto comportamenti ostili e sprezzanti nei confronti delle forze dell’ordine che lo hanno scortato quando c’era da rendere qualche testimonianza minacciando azioni violente, oltreché a intrattenere rapporti social compromettenti con altri pregiudicati e attuali collaboratori di giustizia. A febbraio 2023, Zuppardo viene diffidato perché ha rivelato su Facebook e Tik e Tok i suoi profili social.

A luglio 2024, il Servizio centrale di protezione ha comunicato che Zuppardo, sebbene richiamato sul corretto utilizzo dei social, non osservava la pur minima regola di prudenza, postando foto e selfie che lo ritraggono in luoghi facilmente individuabili dagli altri utenti. In precedenza, il 4 giugno 2024, personale del Nucleo Operativo di Protezione ha segnalato che in una live su un social network con vari partecipanti, tra cui un nick-name riconducibile ad un collaboratore di giustizia, è stata captata una conversazione nella quale veniva indicato che Zuppardo fosse stato colpito da un ictus e trasportato in eliambulanza in ospedale. Un fatto che è realmente accaduto il giorno precedente.

Una vita esposta in pubblico, quando invece occorreva riservatezza. Ecco perché la Direzione Nazionale Antimafia, lo scorso 22 luglio, ha espresso parere favorevole alla revoca dello speciale programma di protezione. Le condotte di Zuppardo “evidenziano un’assoluta mancanza di percezione del pericolo esponendo a eventuale pericolo soggetti terzi che si occupano della sua protezione“. La Dna parla di “comportamenti disdicevoli”, così come evidenziati dai difensori degli imputati (in particolare nel procedimento ai Carabinieri accusati da Zuppardo), che compromettono la credibilità del collaboratore di giustizia.

Zuppardo, in prospettiva, può tendere al “mendacio”, ossia al travisamento della verità. Una situazione che ha fatto sì che pure la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, lo scorso 10 settembre, ha espresso parere favorevole alla revoca.

Regole della protezione violate, esposizione al pericolo di terzi soggetti, sovraesposizione sui sociale e comportamenti al limite. In breve, sono queste le ragioni che hanno portato al fallimento della collaborazione con lo Stato di Maurizio Zuppardo. Il 48enne ha così vanificato l’efficacia delle misure di protezione disposte a suo favore. I suoi comportamenti, secondo il Ministero che cita diverse sentenze amministrative, hanno messo in pericolo non solo gli agenti di scorta, anche la popolazione “che potrebbe rimanere coinvolta in attentati criminosi alla vita del collaboratore che si sia incautamente esposto”.

Gli effetti della revoca, peraltro, investono anche gli altri famigliari del collaboratore che, in sostanza, per lo Stato, non è più credibile. Al massimo, recita il provvedimento del Ministero, Zuppardo potrà essere segnalato all’autorità provinciale di pubblica sicurezza “ai fini dell’adozione delle ordinarie misure di protezione, ritenute adeguate al livello di rischio”.

Una pagina grave che pone l’antimafia come vittima di comportamenti di un collaboratore di giustizia il quale, probabilmente sin dall’inizio, non ha inteso il suo ruolo.

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