Strage di Cisterna, sono state pubblicate le motivazioni della sentenza che ha assolto i due medici accusati dell’omicidio colposo delle due bambine
Non potevano prevedere la strage del 28 febbraio 2018 commessa dal carabiniere Luigi Capasso a Cisterna, nell’appartamento ubicato in località Le Castella. È questa l’estrema e brutale sintesi delle settantasei pagine di sentenza che sanciscono l’assoluzione dei due medici Quintilio Facchini e Chiara Verdone, quest’ultima medico militare a Velletri e il primo medico di base della famiglia Capasso, accusati dell’omicidio colposo delle due bambine di Cisterna, uccise dal militare, a febbraio di sette anni fa.
A pronunciare la sentenza, il 10 luglio scorso, dopo un’ora e mezza di camera di consiglio, il giudice monocratico del Tribunale di Latina, Enrica Villani. Ad assistere alla sentenza, lo scorso 10 luglio, nell’aula 1 del Tribunale di Latina, anche Antonietta Gargiulo, madre delle due bambine e ferita a sua volta dalla furia del marito. Chiara Verdone era difesa dall’avvocato Carlo Arnulfo, mentre Quintilio Facchini era assistito dagli avvocati Orlando Mariani e Sara Tassoni. Gli avvocati difensori avevano chiesto l’assoluzione per entrambi i medici.
Antonietta Gargiulo costituitasi parte civile era diesa dagli avvocati Claudio Botti e Caterina Migliaccio. L’associazione “Differenza Donna”, altra parte civile, era assistita dall’avvocata Teresa Manente. Per loro, la pubblica accusa rappresentata dal pubblico ministero Giuseppe Bontempo, aveva chiesto che la Asl di Latina, responsabile civile nel processo, risarcisse il danno: 500mila euro per Gargiulo, 50mila euro per l’associazione.
Una sentenza che, quindi, non aveva recepito le richieste del pubblico ministero Giuseppe Bontempo, il quale, a maggio, dopo tre ore di requisitoria, aveva chiesto di condannare a 2 anni e 6 mesi di reclusione i due medici. Il pm aveva chiesto di condannare i due medici che diedero il via libera, indirettamente e direttamente, alla restituzione dell’arma a Capasso.
L’appuntato uccise le due figlie dell’età rispettivamente di 9, Martina, e 13 anni, Alessia. A quel folle quanto terribile piano criminale sopravvisse miracolosamente la moglie Antonietta Gargiulo. Capasso, dopo aver ucciso le figlie e ferito la moglie, si suicidò. Furono sei i colpi indirizzati contro la moglie che si salvò miracolosamente, sei contro Alessia,, tre contro Martina e, infine, l’ultimo contro se stesso. Colpi sparati con la pistola d’ordinanza al centro di questo processo conclusosi con due assoluzioni perché il fatto non costituisce reato.

Secondo l’accusa, i due medici, avrebbero agevolato la restituzione della pistola di ordinanza all’allora Carabiniere Capasso, redigendo due referti favorevoli.
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L’assunto del pubblico ministero Bontempo è che Facchini, medico di base della famiglia, sapeva dei problemi di Capasso, dei suoi disturbi psicologici, perché era stata l’allora moglie, Antonietta Gargiulo, a a raccontargli tutto. La stessa dottoressa militare, Verdone, era a conoscenza che Capasso era al centro di una pratica di separazione dalla moglie, che era in cura da uno psicologo, e che vi erano stati eventi traumatici che lo avevano colpito. Senza contare che, secondo il pubblico ministero, il medico militare sapeva delle trentadue truffe commesse da Capasso che erano valse la sua sospensione dal lavoro con l’Arma.
Verdone – spiegava il pm – valuta l’infermità di Capasso non per cause di servizio e accerta disturbi di adattamento al ciclo vitale. Dopodiché gli dà un termine di 8 giorni per avere una carta d’appoggio concessagli dal medico di base Facchini. Quest’ultimo dispone un certificato che dichiara di come Capasso sia psicologicamente compensato e sulla base di questa carta firma la restituzione dell’arma.
Ma “Capasso era disturbato e pericoloso”, aveva spiegato nella sua requisitoria il pubblico ministero e i due medici avevano tutti gli elementi per conoscere la situazione.
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Il giudice Villani, però, considera l’evento del 28 febbraio come non prevedibile da parte dei due medici: “Gli elementi raccolti nel corso dell’istruttoria dibattimentale non consentono di pervenire ad un giudizio di colpevolezza degli imputati ogni oltre ragionevole dubbio“. Non è sufficiente che nel processo sia stata ripercorsa una vicenda dai connotati tragici, come quando uno dei Carabinieri ha spiegato in aula di aver notato, entrando nel caseggiato della mattanza, Antonietta Gargiulo “a terra con un cappuccio e un giubbotto nero che si lamentava, distinguendone la voce femminile. Soccorrendo la donna, che aveva vistosi segni di sangue nel volto e nel corpo, apprendeva da lei che il marito le aveva strappato la borsa, sparandole, ed era poi salito verso l’abitazione”.
A favore del medico Verdone, il giudice rileva che aveva chiesto a Capasso se stesse assumendo dei farmaci o se avesse avuto problemi di salute in passato. L’uomo, però, negava di assumere qualsiasi terapia. L’imputata, inoltre, gli chiedeva se avesse precedenti di tipo psicopatologico che Capasso negava. Inoltre, era la stessa Verdone a dire a Capasso di accedere al servizio di psicologia, su base volontaria, non ritenendo sussistenti i presupposti per un accesso d’ufficio.
Per quanto riguarda, l’altro medico, Facchini, sarebbe stato lui a indirizzare Capasso in un percorso di psicoterapia, sebbene, come riferito dai due consulenti del pubblico ministero, Verdone poteva avvalersi di una consulenza specialistica e Facchini prima di dichiarare che Capasso era “psicologicamente compensato”, avrebbe dovuto approfondire la sua situazione clinica inviandolo nuovamente a visita specialistica psichiatrica.
Il giudice stabilisce la non responsabilità della dottoressa Verdone perché “da parte dell’amministrazione richiedente, non siano pervenute né l’indicazione specifica in ordine agli accadimenti fino a quel momento rivelati dalla Gargiulo, e cioè l’episodio del 4 settembre 2017 nell’ambito del quale il Capasso I’aveva aggredita strattonandola, né una documentazione completa in ordine ai suoi precedenti sanitari (in specie le diagnosi di stati d’ansia nell’ambito di alcuni periodi di convalescenza). Come indicato dai consulenti ed emergente dall’istruttoria, sono state rappresentate alla Verdone generiche “problematiche relazionali” e un “disagio” derivato dalla separazione per il quale il soggetto si era rivolto ad uno psicologo di un consultorio familiare”.
I consulenti ascoltati nel processo, inoltre, hanno peraltro affermato di non poter concludere se il mancato passaggio di informazioni sui precedenti sanitari e lavorativi del militare sia da attribuire ad una omissione da parte del Comandante della Compagnia di Velletri o del Direttore dell’Infermeria Presidiaria che non ne ha fatto specifica richiesta ovvero ancora se vi sia una grave lacuna nelle procedure stesse; potendosi però senza dubbio affermare che tale manchevolezza abbia influito in maniera consistente sul l’esito della valutazione.
È un problema di normativa non chiara in quanto si ricavano indicazione “quanto meno contrastanti” rispetto a chi avrebbe avuto la responsabilità di segnalare il caso psichiatrico Capasso.
Ad ogni modo, rispetto “alla riconoscibilità della situazione di pericolo finalizzata ad attivare i doveri in capo all’imputata, non può dunque non evidenziarsi la Verdone non abbia assunto tutte le cautele doverose”. Non tali, però, da portarla a una condanna.
Ma erano evitabili gli eventi poi concretizzatosi nella strage? Secondo il giudice “le risultanze dell’istruttoria dibattimentale non consentono di affermare che le condotte doverose omesse dalla Verdone sarebbero state utili ad acquisire il completo patrimonio conoscitivo”. In sostanza
“non vi è prova che, ove la Verdone avesse disposto esami di laboratorio funzionali ad individuare, nonostante la contraria affermazione del Capasso, che egli assumesse farmaci per ansia e insonnia, tale accertamento conducesse ad estrapolare il dato ritenuto utile dai consulenti a pervenire ad una diagnosi di disturbo del comportamento”. Era quindi arduo comprendere che Capasso, assumendo farmaci ed essendo un paziente psicologico, potesse arrivare a uccidere.
“Pur non dubitandosi delle conclusioni dei consulenti del P.M. in ordine alla incompletezza o superficialità del colloquio clinico condotto dalla Verdone rispetto al Capasso – scrive il giudice Villani – residuano sicure perplessità in punto di prova circa i concreti elementi conoscitivi che il maggior approfondimento del colloquio avrebbe portato all’imputata, e per l’effetto al giudizio diagnostico da compiersi”. C’è di più: “i seri dubbi in ordine alla capacità di hane elementi utili dal colloquio con il Capasso stante la sua elevata capacità dissimulatoria portano a dubitare della riconoscibilità stessa, per la Verdone, della necessità di indagare i fatti sanitari risalenti a circa dieci anni prima in assenza di un qualche pur minimo spunto ad adoperarsi in tal senso, secondo quanto affermato dagli stessi consulenti del P.M.”. Né i test diagnostici su Capasso avrebbero fatto chiarezza sulla situazione.
È utile sottolineare per il giudice Villani che “la Verdone, che ha incontrato il Capasso in due sole occasioni, non ha mai avuto conoscenza di nessuna delle circostanze afferenti al vissuto personale dello stesso quale riferite nell’odiemo dibattimento dalla Gargiulo, e cioè delle sue condotte aggressive owero delle sue dichiarazioni suicidiarie o delle minacce di morte fatte in occasione dei vari litigi e riferiti in dibattimento dalla persona offesa”. Anche laddove Verdone avesse saputo dell’episodio aggressivo del 4 settembre ai danni della Gargiulo, “se certamente doveva indurla ad effettuare I’approfondimento diagnostico nel termine chiarito, non consentiva di per sé di prevedere eventi di portata tale da attingere al bene vita”.
Per quanto riguarda le omissioni imputate a Facchini, il medico di base, il giudice dedica meno spazio nella sentenza. “Non è possibile desumere dagli obblighi del Facchini derivanti dalla sua generale funzione terapeutica l’esistenza di una omissione causalmente rilevante rispetto agli eventi, là dove difetta Ia prova che un migliore adempimento di tali obblighi (che non appaiono peraltro del tutto disattesi dall’imputato, il quale , pur non attivando il sistema sanitario nazionale, inviava il Capasso da uno specialista psichiatra operante in regime privato, che a sua volta lo indirizzava ad uno psicologo) avrebbe consentito di evitare gli eventi, previo superamento cioè dei disturbi del soggetto”.
Avrebbe dovuto rilasciare il cosiddetto certificato propedeutico alla restituzione dell’arma d’ordinanza? È vero che Facchini avrebbe dovuto avere più cautela – spiega il giudice – incorrendo in violazioni di regole. Facchini va rimproverato perché è “incorso in una violazione di comune norme di prudenza, esclusivamente consistita nell’avere rilasciato un certificalo non evidenziante patologie pur in presenza di elementi dubbi, dovendosi cioè valutare come condotta doverosa quella dell’astenersi dal rilasciare tale certificato, e non anche quella di fornire un quadro anamnestico completo”.
Tuttavia, il duplice omicidio era evitabile? Secondo il giudice, l’assenza del certificato – “unica condotta doverosa (comportamento alternativo lecito) contestabile al Facchini” – non avrebbe offerto alla Verdone “quel supporto documentale, pur minimo, che ella stessa ha dichiarato di aver ritenuto necessario per concludere la procedura relativa al Capasso in senso a lui favorevole”.
“Anche con riferimento al Facchini – spiega il giudice – difettino elementi sufficienti per affermare la prevedibilità dell’evento da parte dell’imputato”. Inoltre “le risultanze dell’istruttoria sono invece rimaste imprecise e contraddittorie in ordine alla conoscenza che il Facchini abbia avuto degli ulteriori episodi aggressivi di cui il Capasso si era reso responsabile negli anni precedenti”.
“ln definitiva, pur a fronte di una maggiore conoscenza del vissuto personale del Capasso da parte del Facchini, non può affermarsi che gli elementi in concreto conosciuti, o quanto meno quelli che l’istruttoria ha consentito di ritenere provati, fossero sufficienti per formulare un giudizio di prevedibilità degli eventi”.