Dopo 50 anni arriva il risarcimento ad una ex dipendente dell’ospedale di Latina per trasfusioni di sangue infetto.
La sentenza della Corte di Appello di Roma, notificata oggi, non lascia dubbi: furono alcune trasfusioni di sangue somministrate nel 1970 al Goretti di Latina ad infettare con il virus dell’epatite C una ragazza di 25 anni.
Dopo 50 anni da quelle trasfusioni che le hanno cambiato la vita, alla donna, che oggi ha 74 anni, è stato riconosciuto un risarcimento di 450mila euro per il grave danno alla salute.
La Corte di Appello di Roma ha accolto il ricorso dell’avvocato Renato Mattarelli che ha assistito la donna anche nel primo grado di giudizio che si era concluso con una condanna ad un risarcimento di solo 100mila euro.
I giudici della Corte hanno ritenuto fondato la tesi dell’avvocato Mattarelli che ha evidenziato come nella sentenza appellata, il Tribunale di Roma avesse tenuto conto solo del danno al fegato (rovinato dall’epatite C) e non anche del maggior pregiudizio psichico della donna conseguente alla depressione da consapevolezza del contagio.
Infatti, quando nel 2009, la donna è venuta a conoscenza dell’infezione ha subito un grave trauma psichico che l’ha portata a chiudersi, rifiutando il contatto fisico con il marito, figli e nipoti per paura di contagiarli.
L’avvocato Mattarelli ha ottenuto una rilettura scientifica della relazione medica (del consulente tecnico nominato in primo grado dal Tribunale di Roma) evidenziando che risultava documentato il disagio psichico della donna che doveva, e deve, ogni giorno ripercorre i 50 anni dalle trasfusioni ad oggi con i sensi di colpa di chi potrebbe aver contagiato, seppur inconsapevolemente fino alla scoperta della propria infezione, le persone con cui è entrata in contatto.
Fra le paure che indicono la professionista di Latina a chiudersi all’esterno e a rifiutare anche le forme elementari di contatto vi è quella di aver potuto a sua volta contagiare i pazienti con cui è entrata in contatto durante il lungo rapporto di lavoro con il Goretti di Latina.
Per questo l’avvocato ha evidenziato nella discussione orale davanti alla Corte di Apello come, in relazione alla propria assistita, la perizia medica del Prof Umberto Recine afferma che “…Al colloquio…appare turbata, afferma che la sua vita è stata totalmente rovinata, vive con l’angoscia continua di infettare i suoi familiari e di essere suscettibile a qualsiasi germe o virus ambientali, nonostante opinioni contrarie dei vari medici consultati. Usa stoviglie e un bagno a parte, non lava la sua biancheria insieme a quella dei familiari. Ha ridotto al minimo la sua vita di relazione poiché ha paura di non poter avere in ogni situazione la disponibilità immediata di un bagno per le sue frequenti evacuazioni che riferisce come incontenibili. Per tale motivo ha continui sensi di colpa nei confronti del marito che costringe ad una vita socialmente sacrificata…All’esame fisico, la signora mostra ansietà, ma le sue condizioni generali sono buone. Dimostra una buona cura della propria persona. L’età apparente appare inferiore alla anagrafica. Dopo qualche minuto prevale l’ansia e la visita è interrotta da accessi ricorrenti di pianto. E’ disforica e, lasciata parlare, tende a descrivere minuziosamente le sue abitudini di vita, le sue difficoltà, il rapporto patologico con l’igiene, gli agenti batterici invisibili e le contaminazioni, il conseguente impoverimento della sua vita sociale e i rapporti intrafamiliari che da tutto questo sarebbero stati compromessi…”
Certamente il risarcimento di 450mila euro, a cui il Ministero della Salute è stato condannato di pagare alla donna (per non aver vigilato sulla negligente somministrazione di sangue del 1970 da parte del Goretti di Latina) potrà in qualche modo compensare il danno alla salute fisica ma, sembra molto difficile, che una qualunque somma potrà mai riportare la serenità alla donna di Latina.