IL DELITTO IRRISOLTO DI FERDINANDO “IL BELLO” DI SILVIO: CHI LO HA UCCISO E PERCHÈ?

L'immagine tatuata di Ferdinando Il Bello
L'effige tatuata di Ferdinando Il Bello

Due dei suoi figli erano i peggiori guappi attaccabrighe nella Latina giovanile della metà anni Novanta.
Antonio e Costantino, da adolescenti, erano già Sapurò e Patatone. E molti, anche i più grandi di loro, ne avevano timore frammisto a fastidio, il che li portava a tenerseli buoni, ossequiarli, compiacerli.
Esercitavano da giovani il peso del loro cognome, Di Silvio, che, nonostante solo ora vengano conosciuti da tutta Italia come un clan, già all’epoca, tutti, a Latina, sapevano chi fossero nel silenzio più totale dell’opinione pubblica, delle classi intellettuali, della media borghesia, della politica.
Loro, i Di Silvio, erano già addentro il mondo criminale, almeno dagli anni Ottanta, ed era colpevole e ipocrita definirli zingari da cui bastava solo stare alla larga. Perché quel salotto buono, mentre le famiglie sinti si consolidavano specializzandosi in estorsioni, usura, recupero crediti e spaccio, aveva già rapporti con essi e, di più, era la politica a cui promettevano voti che non disdegnava cercandoli. La storia di Ferdinando il Bello, il padre di Antonio e Costantino, lo testimonia.

La generazione di Sapurò sarebbe stata, in assoluto, e per la prima volta nel capoluogo pontino, quella che avrebbe imposto l’egemonia a Latina del cartello criminale dei clan di origine nomade. Non da soli, si capisce, ma grazie ai loro padri, ai loro zii, che, poi, negli anni Duemila, trovarono finalmente campo libero e culminarono il loro potere nella guerra criminale del 2010. Che fu sì conseguenza di arresti decisivi – come i due boss Carmine Ciarelli e Giuseppe “Romolo” Di Silvio – ma che conclamò, una volta per tutte, chi comandava in città.

Supercinema
Il Supercinema in un’immagine attuale. Tra gli anni Ottanta e Novanta rappresentava il luogo dove tanti giovani si riunivano, sotto i portici, per passare le ore libere in compagnia degli amici

Tutti ricordano le razzie dei figli di Ferdinando il Bello nei luoghi della movida latinense di metà anni Novanta. Si presentavano al Supercinema su Corso Della Repubblica, dove c’era lo struscio giovanile a Latina, e bene che andava qualche 5 o 10mila lire erano sottratte a chiunque capitasse loro a tiro. Chiedevano i soldi con una scusa qualunque e se il malcapitato tentennava a dargliele, giù uno schiaffone. Nel migliore dei casi.
Per evitare, poi, di essere umiliati o estorti era sufficiente conoscere qualcuno che li conosceva, mettersi proprio fisicamente vicino a persone che non potevano essere toccate. Gli altri, quelli che non avevano alcun legame con nessuno, o che lo rifiutavano, erano a rischio.
Il più terribile era Antonio Sapurò (che ora ha tatuato sul cuore la faccia del padre ammazzato), spietato in quelle piccole estorsioni che ora si riassumerebbero in bullismo. Sceglieva a caso, molto probabilmente rispetto a qualche faccia che non gli andava a genio tra le decine e decine di ragazzi di piccola e media borghesia seduti su motorini parcheggiati di sabato, prima della pizza con gli amici, nel cosiddetto Centro.

Non poteva sapere che solo qualche anno più tardi sarebbe stato vittima della sua stessa violenza: nel 2006 un carabiniere in borghese lo colpì davanti al Felix – la discoteca di Piazza Aldo Moro, dove a farla da padrone era Massimiliano Moro -, perché dopo essere stato cacciato da un buttafuori, Sapurò tornò con una pistola, sparò tre colpi ma fu a sua volta raggiunto da una pallottola che lo prese all’addome, menomandolo.
Né il fratello più piccolo, Patatone, poteva sapere che solo qualche anno dopo rispetto alle sue smargiassate in motorino, a seguire la sua educazione criminale, e a contatto con molti gaggi che lo trattavano come un principe, il loro padre, Ferdinando, sarebbe morto, esploso in aria al mare, a Capoportiere, insieme ad una Fiat Uno completamente carbonizzata. Era il 9 luglio del 2003, quando i figli di Ferdinando, Sapurò e Patatone, erano poco più che ventenni, in forma, e pronti a diventare ciò che poi non sono stati: i veri capi dei Di Silvio in città.

La pm, la Dott.ssa Falcione, parlò di “criminalità di spessore” per il botto di Capoportiere. Da più parti, nelle voci che si rincorsero, si pensò fosse un omicidio in salsa casalese per le modalità efferate – al netto degli omicidi di un decennio prima (inizi anni Novanta), intervenuti nella mala storica latinense, che spaventarono una città intera, quell’autobomba rappresentava e rappresenta tuttora un unicum per il crimine pontino.
Un omicidio di tale portata, così vistoso, era più simile alle latitudini della Palermo di Cosa Nostra che alle batterie del crimine pontino che qualche rivoltellata la frequentavano, ma mai un attentato dinamitardo con il corpo di un uomo, Ferdinando Di Silvio, deturpato.

Ferdinando era detto Il Bello. A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, non un grande spessore criminale il suo nel clan Di Silvio, pur essendo figlio del capostipite Antonio “Baffone” Di Silvio, morto nel 2016, che a sua volta era fratello dell’altro capostipite Giuseppe Pasquale Di Silvio, da cui si originano rispettivamente i due rami dei Di Silvio in città.

Reati sì da parte di Ferdinando, ma non proprio quello che si definisce un boss. Lo chiamavano il Bello come Filippo d’Asburgo il re di Castiglia nel XVI secolo. Solo che Ferdinando Di Silvio di nobile non aveva niente e quell’appellativo, che i rom esigono darsi anche per differenziarsi in nomi che si ripetono da nonno a padre a figlio, gli era stato affibbiato dalla Latina anni Ottanta che frequentava, una Latina sicuramente malavitosa che vedeva in quel ragazzo uno che si atteggiava con vestiti firmati, scarpe nuovissime e altri ammennicoli vari. Per questo lo canzonavano così, il Bello, per prenderlo affettuosamente in giro.

Prima di esplodere, il Bello era stato in carcere. Piccole pene, quelle che hanno caratterizzato i Di Silvio stradaroli (estorsione il core business), o chiunque voglia intraprendere la strada della malavita. Ma, come detto, Ferdinando era sì interno al clan ma non era un boss, e quell’autobomba che di solito non può che riservarsi a un padrino, effettivamente stonava e stona ancora. Perché proprio a lui?

sede de Il Gabbiano
Sede della cooperativa Il Gabbiano a Latina

Dalla fine dei Novanta, il Bello lavorava nella cooperativa Il Gabbiano di Dario Campagna. Non fu imposto dalla mala, ma segnalato alla cooperativa dai servizi sociali del Comune di Latina che, nel corso degli anni, qualche prebenda sociale alla famiglia Di Silvio l’ha corrisposta: assegni di qualche migliaia di euro una tantum che testimoniano la sottovalutazione che, da sempre, c’è stata a Latina, finanche una certa consuetudine o compromissione con soggetti appartenenti a un clan, e non di certo a una famiglia bisognosa.
È verso la fine dello scorso millennio, dunque, che Ferdinando cominciò a fare il parcheggiatore al Lido di Latina per conto de Il Gabbiano. Oltre a staccare i biglietti per gli avventori della tintarella, dirigeva un paio di pischelli che ogni mattina lavoravano insieme a lui per fare al meglio il proprio lavoro.
Non una parola di troppo, né un gesto fuori dalle regole quando lavorava a Il Gabbiano. Ferdinando nella cooperativa rigava dritto, anche perché un lavoro da buon padre di famiglia gli serviva per coprirsi e un assegno mensile era utile a lui come a chiunque abbia tanti figli. E Il Bello insieme alla moglie Angelina ne aveva otto di figli.

Solo qualche settimana fa su più di un sito d’informazione locale, Angelina si è palesata scrivendo una lettera pubblica, tramite il suo avvocato Pasquale Cardillo Cupo, in cui chiede giustizia per sua madre Vincenza Spada, uccisa a Cassino nel 1999, e implora i benefici della continuazione dei reati e la libertà anticipata speciale per il figlio Costantino “Patatone” Di Silvio. Ma l’esortazione più accorata di Angelina è rivolta alla memoria del marito, Ferdinando il Bello, per cui domanda giustizia: “Dopo 20 anni circa, la sottoscritta è ancora in attesa di conoscere la verità, nella speranza si possano fare lumi su quanto accaduto mediante un’auspicabile riapertura delle indagini, assistita dal difensore avvocato Pasquale Cardillo Cupo; altrettanto è in attesa di chiarezza per tale caso e nondimeno per l’uccisione del marito Ferdinando Di Silvio, detto ‘il bello’, capostipite della famiglia ed amato da tutti, tragicamente deceduto a Latina il 9 Luglio del 2003 dopo essere uscito per andare a lavoro”.

Una richiesta, quella di Angelina Di Silvio, passata anonimamente nella cronaca locale quasi come una velina di un politico o una pagina a pagamento, analizzata per niente ma che qualche punto interrogativo lo pone.

Meno di un mese prima che Ferdinando il Bello esplose in aria, Luca Troiani, suo cognato, il 21 giugno 2003, aveva subito una ritorsione. Otto anni di reclusione fu la condanna che il collegio dei giudici del Tribunale di Latina emise a carico di Fabrizio Marchetto, l’uomo che sparò tre colpi di pistola contro l’allora 32enne Luca Troiani gambizzandolo. 18 giorni dopo, deflagrò l’auto e si portò via Il Bello. 

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