Il giudice per le udienze preliminari del Tribunale di Caltanissetta, Graziella Luparello, ha rinviato a giudizio i generali dei Carabinieri, adesso in pensione, Angiolo Pellegrini, storico collaboratore del giudice Giovanni Falcone, e Alberto Tersigni. Sono imputati di depistaggio.
A processo anche l’ex poliziotto Giovanni Peluso, al quale si contesta l’ipotesi di reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Pellegrini e Tersigni, per tanti anni in servizio alla Dia, la Direzione investigativa antimafia, avrebbero ostacolato le indagini della Procura nissena a riscontro delle dichiarazioni del pentito Pietro Riggio, ex agente della Polizia penitenziaria, arrestato allorchè reggente della famiglia mafiosa di Resuttano, in provincia di Caltanissetta.
Pietro Riggio è un personaggio che ha sfiorato anche le lande pontine e ha parlato del sistema Montante. è stato per un periodo a Latina, sotto protezione e con una falsa identità (Pietro Di Benedetto). È nel capoluogo pontino che Riggio/Di Benedetto ha raccontato di essere stato raggiunto da un personaggio, a fine maggio del 2016, nei pressi del Tribunale di Latina, qualche giorno prima dell’udienza presso il Tribunale di Sorveglianza di Roma che avrebbe stabilito o meno la concessione della detenzione domiciliare.
“Pensavo fosse qualcuno che volesse un’indicazione stradale – ha detto in aula Riggio – “Invece d’acchito mi disse ‘lascialo stare a Montante, cosa ti ha fatto? Non ti ha fatto nulla…Non cacciarti in questi guai ricordati che il 31 hai l’udienza e se ne andò a bordo di una BMW che lo prelevò“.
Successivamente, l’episodio di fronte al Tribunale di Latina, Riggio lo raccontò al suo referente per esigenze del collaboratore di giustizia Antonio D’Onofrio, ispettore capo della polizia di Stato a Latina che gestiva i pentiti sotto protezione nel territorio pontino.
Anche D’Onofrio, a quanto sostenuto da Riggio, gli avrebbe intimato di “lasciare perdere Montante e non nominare le persone con la divisa“. D’Onofrio, secondo Riggio, “chiuse l’intervento dicendo “vedi che ti faranno fare la stessa fine di Gioè” (ndr: Antonino Gioè, il boss morto ufficialmente suicida in carcere in circostanze mai chiarite nel luglio 1993)”.
Come noto, l’ispettore capo della Questura di Latina Antonio D’Onofrio è morto a 58 anni. D’Onofrio si sparò un colpo di pistola alla testa il 24 dicembre 2018 sul terrazzo della Questura di Latina dove dormiva in una camerata di servizio. Una versione, quella del suicidio, alla quale il pentito ha detto di non credere. “Non si può escludere che – ha spiegato il giornalista nell’inchiesta Finocchiaro – qualcuno di ben informato abbia avvertito D’Onofrio che Riggio aveva iniziato a parlare di lui, e quindi era stato bruciato dalle rivelazioni del pentito“.
Un punto di vista che non trova riscontro qui a Latina, ma che appare inquietante. A giugno 2018 Riggio inizia a rendere le dichiarazioni più importanti, sei mesi dopo D’Onofrio, persona rispettata da tutti negli ambienti della Questura di Latina, si toglie la vita.
E, infine, di un altro incontro racconta Pietro Riggio, sempre nel corso dell’udienza in Corte d’Appello sulla Trattativa Stato-mafia, datata ottobre 2020. “Sono stato agganciato presso uno studio legale da un ex capo di un servizio centrale, personalmente lui dicendomi che Montante veniva attaccato ingiustamente, che era un paladino dell’antimafia e che noi pentiti, se avessimo avuto uno scatto di dignità, non lo dovevamo nominare”.
L’ex capo del servizio centrale, secondo Riggio, è Nicolò Pollari, generale della Guardia di Finanza ed ex direttore del SISMI, il Servizio informazioni e sicurezza militare. Dunque, pezzo grosso dei servizi segreti italiani, coinvolti in più misteri ed episodi opachi della Repubblica, dal rapimento di Abu Omar all’archivio riservato del Sismi insieme all’ex funzionario Pio Pompa.
Riggio racconta di aver incontrato, nel 2016, Pollari nello studio legale, di Via Ulpiano a Latina, dell’avvocato Adriano Verdesca Zain.
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