I versi del poeta originario di Fondi, Libero De Libero, cancellati col murales al teatro De Gasperi. La protesta del presidente dell’associazione intitolata al poeta
Sono stati cancellati i versi di Libero De Libero perché il murales che li conteneva era stato oggetto di un atto vandalico. Così il Comune ha deciso di cancellare tutto. Ecco perché a distanza di mesi, Simone Di Biasio, socio fondatore e Presidente dell’associazione culturale Libero de Libero, ha deciso di esternare su Facebook il suo disappunto.
“Sono mesi che manco da Fondi. La mia medicina è là, in quell’aria, in quel cielo, nel paesaggio dove anche i battiti del mio cuore s’arrestano quando io vi trascorro e sempre alla stessa svolta, finita la strada della stazione, alla svolta per la via Appia che incomincia la mia storia e là finisce quando io parto. Mi sento una cosa di quel creato anch’io, una cosa né trascurata e né dimenticata, una cosa ciociara in terra ciociara, una terra così segreta, ignorata. Se dovessi confessare a chi andrà il mio ultimo palpito, io direi a Fondi, alla mia terra ciociara andrà e non per dirle addio, io resto là”.
Le parole con cui si apre questo intervento sono di Libero de Libero. Per nove anni sono state “stampate” sul perimetro semicircolare del teatro – più che anfiteatro – di Fondi, la città a cui sono dedicate: oggi non ve n’è più traccia. Strano destino. I rapporti tra il poeta originario di Fondi e la sua città natale non sono stati mai idilliaci, tanto che fino a un anno fa le sue spoglie erano nel cimitero di Patrica, paese ciociaro in cui trascorse infanzia e adolescenza dopo il trasferimento del padre per lavoro. In un libretto introvabile Scheiwiller, “Un poeta come de Libero”, si racconta il poeta e il poeta si racconta: nelle prime pagine c’è una foto della cittadina ciociara in cui la didascalia recita “Patrica, dove de Libero sostiene di essere nato”. Secondo il racconto di alcune persone che lo conoscevano bene, alle volte tornava da Roma a Fondi di notte, quando in pochi avrebbero notato la sua presenza: si aggirava tra i vicoli del paese, attraversava le piazze avvolto nel suo cappotto e nella sua “sciarpa di fumo”, poi faceva ritorno a Roma, dove stabilmente viveva. Oggi de Libero non c’è più: non c’è più fisicamente, non c’è più letterariamente. La sua memoria affidata a pochi cultori, le sue opere non più ristampate da Mondadori, il suo storico editore, motivo per cui non hanno facile circolazione se non tra antiquari.
Nel 2013 io ed alcuni amici fondammo un’associazione a lui intitolata: è stata un’avventura che non riesco a descrivere con l’unico mezzo con cui riesco a esprimermi, le parole. Per otto anni abbiamo portato avanti un Festival, “verso Libero”, che ha provato a ricordarlo nella sua poliedricità e nella sua prolificità di scrittore, peta, romanziere, drammaturgo, critico d’arte, intellettuale. Qualche giorno fa mi scrive, dopo un po’ di tempo, Pino Green , Pino Roscigno, artista di Salerno che ho conosciuto la prima volta nella città di Alfonso Gatto nel 2014. Allora mi portò, con le sue intoccabili fantasia e simpatia, tra i vicoli della città per mostrarmi l’enorme quantità di opere che aveva realizzato sui muri: versi, poesie, di Gatto certamente, ma anche di Ritsos, Ungaretti, Scotellaro fino a Totò e a Pino Daniele. Quel centro storico pareva un dedalo di pagine, sembrava di entrare in un libro-paese. Accanto a una grafia ricercata, ondosa, si notavano – e si notano tutt’oggi – volteggi grafici che richiamano il moto della parola, venti tra le foglie, volteggi di visioni, di uccelli di animali che sembrano portare in becco suoni e versi. Uomini e animali fanno versi, curiosa caratteristica che ci accomuna e ci distingue. Dopo aver avuto la fortuna – il caso, la sorte – di conoscere il lavoro di Greenpino, nel 2015 gli chiedemmo di realizzare un’opera murale con quella dedica a Fondi e con altri versi indimenticabili come questi, da “Creatura celeste”:
“A me piace la favola dei tuoi bufali
Più veloci del vento che li morde,
la casa dell’Olmo museo di spettri,
il Cocuruzzo non detto negli atlanti
da scalare dormendo sul tuo petto:
a me piace il veleggiare dei tuoi monti,
l’anguilla nei fossi, la ragazza
che conta gli aranci come piastre d’oro”
Piacciano o meno, sono versi straordinari che regalano non solo immortalità al poeta, ma al paesaggio richiamato dal poeta: regalano un pezzo d’immortalità a noi che abitiamo luoghi per secoli inabitabili, che dimoriamo in quei boschi che ci inghiottono e da cui ogni giorno tentiamo di uscire. Da alcuni mesi quei murales, a seguito di un “atto vandalico”, sono stati completamente rimossi dal Comune di Fondi. Non una parola. Una mano di vernice, così come una vernice li aveva impressi. Non una parola di avviso. Non una parola che esprimesse la volontà di restaurare l’opera in un secondo momento. Non una parola su quelle parole, né da parte degli amministratori locali né tantomeno da molti compaesani: e non credo – sottolineo: non credo – che nessuno si sia mai fermato a leggere, incuriosito, cosa fossero quei segni, cosa dicessero, politici e cittadini. Curiosamente quei versi non erano mai stati “toccati” da alcuno, nonostante fossero stati scritti in angoli particolarmente frequentati, soprattutto dai più giovani. Magari non li hanno mai letti – o forse sì – ma quello che mi ha sempre colpito è che destavano come una specie di rispetto: qualcuno aveva impresso a caratteri cubitali qualche cosa di significativo e nessuno aveva osato sfregiare deturpare l’opera complessiva. E anche dalle foto diffuse online dell’atto vandalico sui muri del teatro, le parole deliberiane non erano state sfiorate, ma attorno erano apparse altre scritte, altre sigle. Persino una bella contaminazione, ma questo è parer mio. Ad ogni modo Greenpino aveva lavorato a quell’opera per ore e ore (tre giorni in tutto), sotto il sole e sotto la pioggia, seduto su una cassetta vuota rossa di quelle per la frutta e la verdura. Finito il lavoro, aveva girato un video lungo tutto il perimetro su cui aveva disegnato, e in quel momento le campane della vicina chiesa di San Francesco avevano preso a suonare.
Ora, io credo non si tratti di una faccenda solo di politica locale, ma di un fatto che riguarda anche l’invisibilità della letteratura nel mondo contemporaneo. E quando si diventa invisibili, si muore un poco alla volta. Mi sono domandato spesso che ruolo abbia la letteratura in un’epoca in cui l’espressione corre su altri pur straordinari binari, che sono spesso legati all’immagine e ancora più spesso alle immagini in movimento. Eppure quei versi, quelle parole di de Libero – le parole della letteratura, si muovono proprio come immagini, ma compiono al contempo un movimento inverso: fanno muovere noi, noi lettori, ed è per questo che com-muovono, letteralmente ci mettono in movimento per contrastare quanto dentro si agita. Sono io per primo un grande “guardatore” di film, serie tv, fumetti, libri senza parole, ma in questi anni ho capito cosa ha la letteratura che non ha – che so – il cinema: l’espressione di certi som-movimenti interiori – il nostro personale mondo, quello popolato da intimissimi fantasmi – può essere interpretata solo dalla parola in una maniera di cui le altre arti – che pure hanno a disposizione formidabili mezzi – difettano. Mi auguro di non semplificare eccessivamente, e soprattutto non intendo ammettere alcuna superiorità della letteratura rispetto ad altre arti, ma piuttosto una sua specificità che rischiamo di non riconoscere più. Un quadro può mostrarmi la realtà da una prospettiva inedita che apre una finestra su un mondo che non conoscevo, e questo può certamente farlo il cinema, anche la migliore letteratura, ma quest’ultima è spesso in grado di esprimere un inesprimibile che però dentro di me, dentro di noi si muove, scalcia, bussa. E se non sappiamo dirlo, semplicemente non siamo: resta letteralmente inaudito. Se non sappiamo dirlo, non sappiamo fermarlo, tutto questo continua a muoversi vorticosamente dentro di noi, ci fa guerra, si oppone a noi. Sapendolo, sapendolo riconoscere, esprimerlo a parole precise – solo quelle – possiamo dirlo a un altro, possiamo riconoscere un essere uomini che ci accomuna. Possiamo finalmente fermarci e dire: pronunciare cosa ci fa male esattamente e cosa ci fa bene, diagnosticarci, possiamo fare pace. E io non mi do pace per questa insensibilità, per questa invisibilità, per questo atto vandalico verso la letteratura, per di più nei confronti di un letterato, di un uomo che meriterebbe una qualche riconoscenza, un qualche riconoscimento, o solo di essere ri-conosciuto.
Curiosamente ieri è uscito un articolo di Stefano Ciavatta su artribune attorno alla questione del lasciare Roma, cliché o sentimento: tra Carlo Verdone, ultimo degli aficionados e primo dei lamentatori, e Remo Remotti di “mamma Roma addio”, c’è spazio per le parole di Libero de Libero. Un bel regalo a Roma di Ciavatta, con la distinzione del poeta tra nostalgia (che pure appartiene al Verdone de La grande bellezza) e ansia di lasciare Roma: “All’improvviso, dentro di noi si scioglie una corrente remota e nella sua onda trascorrono confusamente come relitti luoghi goduti ormai inafferrabili: è un movimento tellurico che ci travolge e tuttavia il nostro essere si ricompone con la stessa rapidità che lo sconvolse. Questa è la nostalgia. […] Ma c’è un’ansia di rivedere un luogo, dopo un lungo o breve soggiorno da cui ci strapparono le circostanze: essa non dura l’attimo di quella corrente per continuare col suo lento stillicidio sino a diventare pena. È una pena che cresce non diversa da un ciuffo d’erba che senza tregua si rinnovi tra le crepe di un muro, e quel muro è un intimo recinto, dentro il quale una parte di noi vive prigioniera. Mai è il termine di tanta pena per chi abbandona Roma”. Chi conosce de Libero, specie le pagine intime di “Borrador”, sa che questa ansia e questa nostalgia trascorrono per tutti i luoghi del cuore e del sangue: persino per Fondi, da dove sono mesi e mesi – un tempo indefinibile – che manca. E nessuno se n’è accorto”.