Estorsione, rapina e violenze col metodo mafioso: decisive per gli arresti dei Di Silvio, appartenenti all’ala il cui boss è Giuseppe “Romolo”, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. E spunta il nome di un quarto pentito
Importanti ai fini investigativi per eseguire gli arresti dell’operazione “Movida Latina” sono i racconti che i pentiti hanno fatto alla Squadra Mobile di Latina e alla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma. Oggi, da stamani 7 dicembre, sono stati eseguiti gli arresti di 4 appartenenti alla famiglia Di Silvio (ala “Romolo”) e di Luca Pes che avrebbe partecipato ad alcune estorsioni insieme a Costantino Di Silvio detto Costanzo o “il cavallaro”, cercato di imporre il pizzo e all’interno del locale la vendita supefacenti, nella primavera 2018 (maggio), presso un noto locale ubicato a Piazza Moro (peraltro finito in passato al centro di risse ed episodi poco chiari di pestaggi consumati). “Questa piazza (ndr: Piazza Moro) è mia” – diceva ai gestore del locale Costanzo Di Silvio – “io alla polizia gli piscio in testa“. E ancora: “Sono straniero come a te (ndr: i gestori del locale non sono italiani), sono nero come a te, però io non sono un infame, adesso vado via, porto una tanica di benzina e vi do fuoco al locale e a tutti voi“.
Lo scenario degli episodi contestati sono costituiti da estorsioni, spaccio di droga e violenze di vario genere, spendendo il nome del detenuto Giuseppe “Romolo” Di Silvio, detto anche “Scapocchione”, boss dell’altro ramo della famiglia alla stregua del cugino Armando “Lallà” Di Silvio (processato in Alba Pontina). Ci sono poi la simulazione di un incidente, la prepotenza a un giovane pontino per farsi “scarrozzare” in giro con l’auto, oppure l’offerta di protezione quando una famiglia era entrata in rotta di collisione con il figlio minorenne di Paolo Baldascini, altro pregiudicato noto alle cronache. Beghe di condominio trasformate dai Di Silvio in un modo per estorcere soldi.
Il gip del Tribunale di Roma Rosalba Liso ha rigettato altre tre richieste della DDA di custodia cautelare in carcere perché non ha ritenuto ci fossero gli estremi: si tratta di Massimiliano Tartaglia (coinvolto nell’operazione calabra anti-narcotraffico Selfie), Mario Guadagnino e Fabio Di Stefano detto “il siciliano”, quest’ultimo cognato di Prosciutto e Patatino Di Silvio e noto alle cronache giudiziarie. Su Tartaglia, inoltre, c’è da fare un distinguo: a settembre Prosciutto e Patatino finirono dentro proprio per averlo estorto, insieme al fratello, tanto è che sui social alcuni componenti della famiglia rom si sono scagliati contro di loro definendoli “infami”.
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Tuttavia, c’è una novità tra i collaboratori di giustizia che hanno dato un supporto importante alle indagini. Non solo gli ormai noti Renato Pugliese, figlio di Costantino Cha Cha Di Silvio, e Agostino Riccardo, entrambi ex affiliati al Clan Travali e, poi, al Clan Di Silvio (compagine di Armando detto Lallà), ma anche Maurizio Zuppardo, nome contiguo alla criminalità latinense, la cui collaborazione è iniziata ad ottobre 2019 ed è stata resa nota recentemente.
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Ma di questi nomi già si conosceva l’identità. C’è infatti un quarto collaboratore di giustizia che, per la storia di Latina e provincia, rimane comunque un fatto notevole considerato ciò che può ormai definirsi come un’alba del pentitismo pontino (sperando che non degeneri come è stato, in passato, in alcuni territori controllati da Cosa Nostra).
L’esistenza di un quarto soggetto che stava parlando con la magistratura era stata resa nota, giovedì 3 dicembre, dalla trasmissione televisiva Monitor in onda su Lazio Tv.
Si tratta di Emilio Pietrobono, 33 anni, originario di Priverno, che ha deciso di collaborare con lo Stato da novembre 2019. Un mese prima, ad ottobre 2019, Pietrobono fu fermato in Strada Congiunte dalla Squadra Mobile a Latina. Il giovane, palesando agitazione e nervosismo, indusse gli agenti di Polizia a perquisirlo: trovarono, all’interno della tasca anteriore destra della tuta, un involucro in cellophane, avvolto con nastro isolante di colore nero, contenente cocaina per un peso complessivo di 60 grammi.
È lui stesso che ha spiegato alcune dinamiche all’interno della famiglia Di Silvio, per cui sostiene di aver agito in qualità di spacciatore e corriere della droga, sotto il coordinamento dei fratelli Prosciutto e Patatino e del cognato di questi ultimi Fabio Di Stefano.
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Dichiarazioni, quelle degli altri due pentiti Zuppardo e Pietrobono, che potranno essere ancora più dirimenti per continuare a reprimere l’azione del Clan Di Silvio, in tutte le sue diramazioni. Non è un caso che, per eseguire gli arresti odierni, gli investigatori e gli inquirenti ricordino e partano dalla Guerra Criminale del 2010 quando si fronteggiarono, unite, le due principali famiglie rom della città – Di Silvio e Ciarelli – contro la malavita non rom riconducibile ai gruppi di Mario Nardone e Massimiliano Moro (ucciso il 25 gennaio 2010, dentro il suo appartamento di Largo Cesti nel quartiere Q5; la sera dopo fu ucciso un uomo a lui vicino, Fabio “Bistecca” Buonamano, destinatario di pallottole e persino di un investimento con l’auto).
Una guerra, quella criminale, che torna anche nel processo Alba Pontina, poiché è impossibile ripercorrere il filo della malavita pontina senza capire quali siano gli episodi non trascurabili e da cui si originano i quadri della mala pontina: primo fra tutti, la causa della guerra criminale che, oltre agli spari contro Carmine Ciarelli detto Porchettone o Maiale, si può far risalire a un altro mistero della malavita pontina.
Si tratta dell’omicidio di Ferdinando Di Silvio detto il Bello, facente parte dell’ala della famiglia rom arresta oggi 7 dicembre, e fatto saltare in aria con un’autobomba al Lido di Latina. Per i Di Silvio, il mandante di quell’ammazzamento è stato, da anni, il gruppo riferibile a Carlo Maricca, noto da anni alle cronache giudiziarie.