Caporalato e turni massacranti sul posto di lavoro: sono stati rinviati a giudizio tutte le persone coinvolte in un’operazione della Procura di Latina, appartenenti a un nucleo famigliare di Borgo Faiti
Il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Latina Pierpaolo Bortone, con l’accusa di caporalato e sfruttamento del lavoro, ha rinviato a giudizio la famiglia De Pasquale, titolari di due aziende agricole attive nel settore ortofrutticolo e florovivaistico a Borgo Faiti, coinvolte e sequestrate nell’operazione portata a termine nell’aprile 2020 da parte della Squadra Mobile di Latina e dal Commissariato di Polizia di Fondi.
A dover affrontare il processo i coniugi Luciano De Pasquale e Roberta Albarello, più Lucia, Annunziata e Mariano De Pasquale. Il processo inizierà il 15 settembre 2021.
I reati contestati dalla Procura di Latina, al momento dell’operazione, erano intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro e violazioni al testo unico sugli stranieri in materia di Lavoro subordinato a tempo determinato e indeterminato.
Le indagini coordinate dalla Procura di Latina e condotte da personale della Squadra Mobile e dell’Ufficio Prevenzione Generale e Soccorso Pubblico e del Commissariato di Fondi permisero di far emergere la circostanza per cui e aziende prelevavano, tramite automezzi della ditta stessa, con alla guida dipendenti con funzioni di autista, i lavoratori nei pressi delle loro abitazioni e più precisamente in punti di raccolta ben precisi posti anche nei comuni limitrofi, per condurli prima nell’azienda principale e poi dividerli sui campi, sempre a mezzo degli stessi furgoni.
Sui mezzi di trasporto, secondo la ricostruzione di inquirenti e investigatori, venivano stipati i braccianti agricoli, che svolgevano una giornata lavorativa fino a dieci ore, per 25/26 giorni al mese, senza che agli stessi venisse per altro riconosciuto eventuale straordinario per le ulteriori ore prestate, senza alcuna copertura sanitaria, senza alcuna retribuzione aggiuntiva in caso di festività o riposo settimanale e senza presidi antinfortunistici e/o di sicurezza.
I braccianti lavoravano quindi in difformità a quanto previsto dal CCNL posto che a fronte di 8 ore di lavoro prestate mediamente, gli veniva corrisposta una paga giornaliera di 30-32 euro, non percependo alcuna maggiorazione per il lavoro straordinario. Nella fattispecie i lavoratori percepivano una paga che oscillava fra i 500 e gli 800 euro al mese, nonostante gli stessi prestassero la loro opera per 25/26 giorni al mese, corrispondente a meno di 4 euro all’ora.
I primi spunti investigativi idonei a dare inizio all’indagine arrivarono dall’Ufficio Immigrazione della Questura di Latina che raccoglieva le dichiarazioni di un lavoratore, di nazionalità indiana, privo di permesso di soggiorno e di contratto di lavoro, il quale, costretto dalla necessità di sopravvivere nonché di mantenere in vita il suo stesso nucleo familiare, rimasto nel paese di origine, si sarebbe sottomesso alle più svariate vessazioni in campo lavorativo e non, subendo in maniera fuori dal normale e inumana turni di lavoro massacranti e faticosi, anche notturni, senza alcun giorno di riposo e con una paga al di sotto di quella dovutagli e sicuramente non per le mansioni ricoperte.
La successiva attività di osservazione presso le aziende agricole di proprietà di De Pasquale e Albarello ubicate su una Migliara a Borgo Faiti (Latina), permettevano di riscontrare la presenza di numerosi braccianti agricoli, manodopera rappresentata da cittadini italiani e stranieri, in prevalenza indiani, i quali, mediante furgoni o l’utilizzo di velocipedi o ciclomotori, giungevano in massa presso detta azienda a partire dalle ore 7 circa per poi uscirne alle successive ore 17 circa.
Alle iniziali dichiarazioni rese dal primo lavoratore indiano, si aggiunsero nel corso delle indagini quelle di ulteriori lavoratori tutte univoche nel rappresentare un disarmante quadro di sfruttamento che sarebbe stato creato da De Pasquale e Albarello.
Dalle dichiarazioni acquisite dagli investigatori sarebbe emerso non solo la consapevolezza da parte dei lavoratori dello sfruttamento ma, anche e soprattutto l’impossibilità di rinunciare al lavoro loro offerto per far fronte alle primarie esigenze di sostentamento.