UN PIANO SOCIALE CHE VIENE DA LONTANO
Finalmente anche la Regione Lazio potrà avere un Piano Sociale e il titolo sarà “Prendersi cura, un bene comune”. L’obiettivo sarebbe stato quello di avere un Piano socio-sanitario integrato, ma il disavanzo della Sanità, e il conseguente Piano di rientro e nomina di un Commissario ad acta, ha limitato la potestà programmatoria all’inclusione sociale. Arriviamo in ritardo rispetto alle altre regioni dal momento che la Lombardia ha un proprio Piano dal 2002, il Piemonte dal 2007, l’Emilia Romagna dal 2008, la Toscana e il Veneto dal 2012 e persino la Sicilia ci ha anticipato di un biennio. L’iter da noi è iniziato con la Legge n.11 del 10 agosto 2016 che all’art. 46 prevede che Regione debba dotarsi di un Piano degli interventi e dei servizi sociali integrato con la programmazione in ambito sanitario. Al tempo l’assessora alle politiche sociali era Rita Visini e fu indetta, subito dopo l’entrata in vigore della Legge, una gara ad evidenza pubblica per la redazione di un Piano triennale. L’Università di Roma Tor Vergata in associazione col Forum del Terzo settore e l’associazione Oasi si aggiudicarono l’appalto e il testo, da sottoporre in un’ultima istanza a deliberazione da parte del Consiglio regionale, venne accolto una prima volta dalla Giunta il 26 aprile 2017. Durante la X legislatura non si fece tuttavia in tempo ad approvarlo in via definitiva.
LA PROCEDURA SOTTO LA GIUNTA ZINGARETTI -BIS
Il 22 maggio 2018 la nuova Giunta Zingaretti con decisione n.12 ha adottato “Prendersi cura, un bene comune” una seconda volta, la proposta è passata successivamente all’analisi delle varie Commissioni competenti, in particolare della VII (Sanità e politiche sociali), e all’approvazione dei vari emendamenti tra ottobre e dicembre. La stessa neo assessora Alessandra Troncarelli ha presenziato alle sedute proponendo proprie modifiche. Durante i lavori sono stati ascoltati – tra gli altri – anche i pareri dei rappresentanti del Consiglio delle Autonomie Locali, del Garante dell’infanzia e dell’adolescenza e del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Un ultimo importante emendamento è stato approvato in Commissione IV il 9 gennaio per volontà dell’assessore al bilancio Alessandra Sartore con cui sono state portate le risorse finanziarie complessive per l’attuazione del Piano a 550 mln di euro, che si aggiungono ai 132 mln del POR (Programma Operativo Regionale) FSE (Fondo Sociale Europeo). Termine ultimo per la presentazione degli emendamenti sarà il 15 gennaio, il giorno successivo il Piano approderà alla Pisana.
LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI
Una delle cinque parole chiavi che contraddistingue il Piano triennale è quella dei livelli essenziali delle prestazioni sociali (LEPS). La Riforma del Titolo V della Costituzione sancisce la competenza legislativa esclusiva delle Regioni nei servizi sociali, affidando però allo Stato la determinazione “dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”(art.117 comma 2 lettera m). Il concetto di LEPS ha un valore costituzionale, ciononostante il Parlamento non li ha mai determinati. Secondo una prima interpretazione i LEPS devono essere intesi come standard qualitativi e quantitativi, garanzie per un’omogenea offerta di servizi in tutto il Paese (obiettivi di servizio). Una seconda interpretazione li vede come diritti soggettivi esigibili nei confronti della Pubblica Amministrazione. Il comma 2 dell’art. 22 della L.R. 11/2016 elenca come livelli essenziali: servizio di Segretariato sociale, servizio sociale professionale, Punto Unico di Accesso garantito in ogni Distretto socio-sanitario, Pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza, servizio di assistenza domiciliare, strutture residenziali e strutture semi-residenziali.
INTEGRAZIONE DELLE POLITICHE E DEGLI ATTORI (ISTITUZIONALI E NON)
La seconda parola chiave del Piano è la logica dell’integrazione. L’intento è quello di superare la programmazione settoriale in favore di una programmazione che integri l’area sociale con quella sanitaria, dell’educazione, della formazione, delle politiche del lavoro e delle politiche abitative. Un sistema che garantisca l’accesso unificato ai servizi e che realizzi l’integrazione istituzionale, organizzativa e professionale (approccio multidimensionale e multidisciplinare). La programmazione socio-sanitaria deve in ultimo favorire lo sviluppo di comunità, attraverso il coinvolgimento di tutti i soggetti che, a vario titolo, sono chiamati a svolgere un ruolo nell’affermazione dei diritti sociali. La stessa governance del welfare della Regione dovrà essere ispirata al principio di co-progettazione e cogestione tra enti pubblici e Terzo settore. Lo scopo di allargare la governance è quello di promuovere a livello locale la corresponsabilità e il senso di appartenenza ai progetti tra i vari attori. Se quello regionale è un primo livello di programmazione, ne esiste un secondo di carattere locale che fa riferimento ai distretti socio-sanitari: nel quadro di questi ultimi vengono approvati i Piani sociali di Zona.
IL DISTRETTO SOCIO-SANITARIO
Il Distretto sociosanitario costituisce l’ambito territoriale e organizzativo ottimale per la programmazione ed erogazione delle prestazioni sociali e sanitarie: il luogo istituzionale dell’integrazione dei due settori. In ogni Distretto deve nascere una Casa della Salute, deve avvenire il collegamento tra il Segretariato sociale, quest’ultimo è servizio di orientamento verso i servizi sociali e socio-sanitari istituito presso ogni Comune, e il Punto Unico d’Accesso distrettuale e la costituzione di unità professionali integrate tra Comuni e ASL (medici, infermieri, assistenti sociali, psicologi ecc.). In tutta la Regione sono 55 i distretti socio-sanitari con Roma Capitale che ne comprende 19 corrispondenti al numero dei municipi (ciascun Municipio approva un proprio Piano Sociale di Zona). I distretti coincidono in numero e perimetro di giurisdizione con quelli dell’ ASL, non sempre e necessariamente nella sede. Nella Provincia di Latina i distretti sociosanitari sono 5 : il distretto LT1 ha sede ad Aprilia e comprende i comuni di Cisterna, Cori e Rocca Massima; LT2 include Latina quale capofila e i comuni di Sabaudia, Sermoneta, Norma e Pontinia; LT 3 ha sede a Priverno e comprende, oltre a Sezze (sede distretto ASL), i comuni dei Lepini non precedentemente menzionati; LT 4 oltre a Fondi come capofila include – tra gli altri – Terracina, San Felice Circeo, Monte San Biagio e Sperlonga; LT 5 con sede a Gaeta abbraccia l’area del sud-pontino (Formia, Minturno e Itri le città principali) e le isole.
IL PIANO SOCIALE DI ZONA (PSdZ)
La programmazione a livello di distretto degli interventi e servizi avviene attraverso il Piano Sociale di Zona (PSdZ), che ha durata triennale. Il piano viene predisposto dall’Ufficio di Piano presso il Comune capofila del Distretto e viene approvato dai Comuni appartenenti d’intesa con la ASL. L’elaborazione del Piano non può prescindere dalla partecipazione di organizzazioni sindacali e reti associative del terzo settore (Associazioni di Promozione Sociale,volontariato, cooperazione sociale, associazioni di utenti e familiari ecc.). La Regione fornisce annualmente delle linee guida per la redazione del PSZ.
LE CASE DELLA SALUTE
Uno degli strumenti attraverso cui la Regione intende riorientare il sistema sanitario territoriale è appunto la Casa della Salute (CDS). La CDS, articolazione del distretto socio-sanitario, deve contare sull’apporto di medici di base, medici specialisti ospedalieri e non, pediatri di libera scelta, infermieri, assistenti sociali e psicologi, oltre ad altri operatori con competenze in linea con le esigenze del luogo. Per ciascuna CDS è previsto un Regolamento di funzionamento e un responsabile con funzioni di coordinamento del personale e dei servizi. La CDS dovrà ispirarsi a principi di collaborazione tra personale di distretto e cittadini e sarà il punto di integrazione tra Comune e ASL, nonché tra strutture sanitarie del territorio e gli ospedali più vicini. L’erogazione delle prestazioni potrà avvenire in loco come in ambulatori, residenze e a domicilio (ambiente privilegiato). Questo luogo pubblico sarà aperto anche al contributo da parte di organizzazioni private del terzo settore. È prevista la riorganizzazione della Medicina convenzionata in aree sub-distrettuali per la tutela della salute di non più 30mila abitanti per ciascuna Aggregazione Funzionale Territoriale (AFT) e la creazione su aree su più vaste delle Unità Complesse di Cure Primarie (UCCP) a cui le AFT fanno riferimento
LA RETE DEI PUNTI UNICI DI ACCESSO
Nuovo modello organizzativo della Regione sarà il Punto Unico di Accesso (PUA) diretto a garantire un accesso immediato alla persona e alle famiglie ai servizi. Ogni distretto sarà dotato in sede di un PUA principale a sua volta collegato con PUA di prossimità. Nel PUA principale opereranno dipendenti ASL e dei Comuni che svolgeranno funzioni di accoglienza (ascolto e informazione), orientamento e prevalutazione del cittadino verso i servizi sociali e sanitari. Le PUA di prossimità sono invece punti decentrati presso servizi territoriali già esistenti, come i presidi ASL, presidi ospedalieri, centri di assistenza domiciliare, consultori, centri di salute mentale, sportelli sociali attivati da enti pubblici, centri unici di prenotazione. Essi saranno collegati tra loro nell’ottica di una rete informativa coordinata dal PUA principale. Le risorse umane, strumentali e finanziarie per la rete dei PUA sono fornite dai Comuni e dalle ASL.
UNITÀ DI VALUTAZIONE MULTIDIMENSIONALE
Successivamente all’accoglienza e alla pre-valutazione realizzate presso il PUA, nel caso di bisogni complessi che richiedono prestazioni sociosanitari integrate, si procede all’attivazione dell’Unità di Valutazione Multidimensionale (UVM). Essa si deve porre l’obiettivo di ricostruire la specifica situazione della persona, in termini di condizioni di salute, condizioni lavorative, economiche, abitative, familiari e relazionali. Sulla base di questi elementi verrà elaborato un progetto personale consistente in un mix di interventi, servizi e trasferimenti in grado di favorire l’inclusione sociale e l’assistenza sanitaria dell’individuo. L’UVM, istituita in ogni distretto sociosanitario della Regione, dopo aver elaborato il progetto personale con la partecipazione del cittadino o di chi lo rappresenta (i c.d. “caregiver”), ne garantisce l’effettiva presa in carico. L’approccio basato su una conoscenza approfondita per la programmazione di interventi personalizzati è appunto uno dei cinque concetti chiave del Piano. I progetti possono essere Percorsi diagnostico terapeutico assistenziali (PDTA), Progetti riabilitativo individuali (PRI), Progetti terapeutico- riabilitativi individuali (PTRI), il Piano Educativo Individuale (PEI) ed altri. Il PEI in particolare consiste in un documento progettuale diretto a garantire per un determinato periodo di tempo il diritto all’educazione e all’istruzione dell’alunno con disabilità e viene redatto congiuntamente da operatori sanitari individuati dall’ASL, da docenti curricolari, docenti di sostegno con il coinvolgimento dei genitori. L’UMV è un’equipe multiprofessionale composta da un medico individuato dal Direttore di Distretto, da un medico di base/pediatra di libera scelta della persona, un infermiere e un assistente sociale. Attualmente destinatari dell’operato dell’UVM sono persone non autosufficienti, anche anziane, persone con disabilità fisica, psichica e sensoriale. In futuro tale strumento metodologico e operativo sarà esteso anche all’ambito della salute mentale, delle dipendenze, alle famiglie con un solo genitore e alle vittime di violenze.
FONDO SOCIALE REGIONALE
Sono quattro le parti in cui è suddiviso il Fondo: la principale, che comprende almeno l’80% delle risorse, è costituita dai trasferimenti a favore dei Distretti socio-sanitari, in particolare per l’attuazione degli obiettivi di servizio correlati ai livelli essenziali delle prestazioni sociali e all’attivazione dei PUA; quota non inferiore al 5% sarà rappresentata dal fondo di solidarietà interistituzionale finalizzato ad interventi urgenti non programmabili ed eccezionali; interventi di interesse regionale e interventi di progressiva attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (non superiori al 5% delle risorse); interventi di premialità dei Distretti che abbiano dimostrato alte performance.
PROSSIMITÀ E INNOVAZIONE LE DUE PAROLE CHIAVE
Concetto chiave del Piano è anche la prossimità alla persona che consiste nel privilegiare interventi domiciliari e la predisposizione di soluzioni abitative che riproducano le condizioni di vita familiari. L’intervento in prima battuta deve essere pensato secondo le preferenze della persona, mentre l’assistenza residenziale deve essere limitata allo stretto necessario e scelta in alternativa al mantenimento dell’abituale dimora solo qualora quest’ultima soluzione si sia dimostrato inefficace. Ultimo concetto chiave è l’innovazione nei processi partecipativi, nello sviluppo di comunità responsabili e mutualistiche. Ispirata dai principi di prossimità e innovazione la Regione ha deciso di sperimentare nuove forme di convivenza quali il co-housing.
CO-HOUSING
Il termine co-housing indica insediamenti abitativi composti da alloggi privati, corredati da spazi comuni destinati all’uso collettivo. Tra gli spazi collettivi possono esservi cucine, lavanderie, spazi per gli ospiti, giardini, palestre, biblioteche, persino auto in comune. Le comunità che sorgono dal co-housing possono dar vita anche a gruppi d’acquisto di beni e servizi. Le dimensioni delle abitazioni sono solitamente più ridotte rispetto alla media delle abitazioni. Lo scopo può essere sia quello di contenere i costi complessivi, ai quali comunque nella nostra Regione i co-residenti dovranno contribuire in base delle proprie capacità economiche ( secondo modello ISEE), sia quello di incentivare un maggior utilizzo delle aree comuni. Il modello di convivenza del co-housing ha cominciato a diffondersi spontaneamente in Danimarca, nei Paesi Bassi e nelle Repubbliche scandinave tra gli anni ’60 e gli anni ’70, per poi attecchire anche in Inghilterra, Stati Uniti, Canada e Australia nei due decenni successivi. Il primo progetto privato in Italia risale al 2007 quando nasce una residenza nel quartiere Bovisa di Milano per 32 famiglie. Negli ultimi anni diverse Regioni (Lombardia, Toscana, Emilia Romagna, Veneto, Piemonte, Umbria, Puglia) hanno cominciato a finanziare progetti di co-residenza rivolti ad anziani o a disabili.
CO-HOUSING INTERGENERAZIONALE, DI PAESE E AGRICOLO-MONTANO
L’obiettivo della Regione Lazio è non solo quello di individuare soluzioni abitative che consentano di contrastare la solitudine, stimolare la mutua collaborazione, favorire il risparmio energetico, il recupero e riuso di beni pubblici, ma anche di contribuire a rivitalizzare territori in via di spopolamento. Il co-housing intergenerazionale è costituito da abitazioni dove persone singole e famiglie di età diversa vanno a convivere in un clima di collaborazione e aiuto reciproco. In alcuni casi sono stati avviati processi di accompagnamento nei confronti di soggetti vulnerabili attraverso operatori che curano gli aspetti socio-assistenziali e relazionali. L’obiettivo di questi progetti è fornire agli anziani nuove opportunità di socialità allungando i tempi di autosufficienza ed allontanando la prospettiva dell’accoglienza in strutture residenziali. Il co-housing di paese consiste nell’insediamento di nuovi residenti nei centri storici di piccoli comuni in via di spopolamento. Alcune case dovranno essere attrezzate in modo da essere destinate ad anziani prevedendo una serie di servizi forniti da équipe di operatori socio-sanitari (fisioterapisti, infermieri ecc.). In tal modo si potrebbe rigenerare l’economia locale di aree in fase di abbandono, creando un volano per nuovi bisogni commerciali oltre a nuove opportunità per operatori sociosanitari. Lo stesso modello di co-housing sarà perseguito anche in aree rurali e montane.
LA CARTELLA SOCIO SANITARIA
Manca attualmente un sistema informativo uniforme di raccolta dati e di analisi dell’offerta e della domanda sociale. Ne deriva una frammentazione nella gestione delle attività di rilevazione all’interno di uno stesso settore, con rischi di duplicazioni o perdita di informazioni e la difficoltà di condivisione di informazioni tra enti diversi. Il tutto si traduce in un ostacolo al processo decisionale. Dall’incapacità delle varie banche dati di dialogare tra di loro e dalla necessità di costruire vocaboli e logiche di rilevazione comuni nasce la cartella sociosanitaria. Si tratta di uno strumento che consentirà la raccolta di informazioni, la gestione dei processi e la valutazione degli interventi. Snellendo procedure, acquisendo informazioni una sola volta evitando ripetizioni e monitorando il progetto personale ne conseguirà un miglioramento della continuità dell’assistenza e della sicurezza dell’utente.
PROGETTO SOCIALE IN DIRITTURA D’ARRIVO
Sulla carta l’architettura dell’integrazione delle politiche sociali e sanitarie è predisposta, il documento che ha per principio guida “la centralità della persona nella comunità” verrà approvato dal Consiglio entro fine mese. La grande criticità sarà rappresentata in un secondo tempo dalla sua attuazione. Di Case della Salute, componenti imprescindibili della politica socio sanitaria già da tempo previste dalla normativa regionale, ne abbiamo appena una in tutta la Provincia (Sezze) e la seconda, quella di Aprilia, tarda ad essere inaugurata. Il commissariamento della sanità avrebbe dovuto terminare il 31 dicembre 2018, restituendo quantomeno autonomia programmatoria alla Regione, e invece è ancora al vaglio dei funzionari del Ministero dell’Economia. In bocca al lupo!