Latina, sentenza innovativa dal Giudice del Lavoro: risarcimento del danno “da discriminazione” per lavoratrice malata oncologica dipendente del MIUR
È di poche settimane fa il provvedimento giudiziario emesso dal Giudice del Lavoro del Tribunale di Latina, Umberto Maria Costume, all’esito di un processo antidiscriminatorio di singolare interesse; il tema trattato riguarda il diritto della lavoratrice malata oncologica a prestare servizio in modalità da remoto, in cosiddetto smart working, con diritto al pieno riconoscimento dei danni subiti a fronte di un immotivato e reiterato diniego da parte del Dirigente Scolastico.
La lavoratrice, nelle funzioni di Direttore dei servizi generali e amministrativi, presso un istituto scolastico, chiedeva, infatti, da mesi di essere autorizzata dal Dirigente Scolastico a lavorare in smart working, per meglio gestire ed affrontare le difficoltà legate alle temporanee terapie salvavita da seguire per un tumore maligno che l’ha colpita.
Purtroppo, nonostante plurimi tentativi e diffide legali, l’autorizzazione a lavorare da remoto non è mai stata rilasciata in favore della lavoratrice, senza alcuna formale e comprovata motivazione.
La stessa, dunque, ormai in preda alla disperazione, alla frustrazione, alla delusione, decideva di rivolgersi al Giudice del Lavoro; solo dopo avere depositato il ricorso, il Dirigente Scolastico autorizzava la lavoratrice a lavorare da remoto per 2 giorni su 5 della settimana, a decorrere dal mese di marzo scorso; forte ormai della sua amara inquietudine, trovandosi ad anno scolastico ormai avanzato, la lavoratrice proseguiva l’iter processuale per vedere riconosciuti i danni derivanti dalla discriminazione subita sul posto di lavoro, per motivi legati alla sua grave disabilità. Giunti a maggio, mese di celebrazione della prima udienza, l’anno scolastico era pressocchè terminato e l’interesse a lavorare da remoto era divenuto meno rilevante.
L’attenzione sollevata dalla lavoratrice, difesa dall’Avvocato Gianna Elena De Filippis, si concentrava, dunque, proprio sull’entità del danno. Come noto, la nozione civilistica di danno implica che la parte danneggiata ne dimostri la consistenza con prove sostanziali molto “forti”, dimostrando soprattutto il “nesso di causalità”. In sostanza, aldilà del diritto allo smart working, negatole, era sussistente anche il diritto al risarcimento dei danni subiti, elemento questo che diventava addirittura di interesse prioritario nel corso della causa.
Il Giudice, dunque, accoglieva integralmente le domande della lavoratrice poiché mentre l’interesse a lavorare in smart working era ormai quasi scemato (si era giunti a giugno!), essendosi quasi concluso l’anno scolastico, l’interesse a vedere risarciti i danni era divenuto preminente ed essenziale.
In merito, si rappresenta che va profilandosi, in Italia, con un durissimo quanto ferreo lavoro di ricerca giuridica, un nuovo orientamento di giurisprudenza in forza del quale, in violazione delle norme interne, europee ed eurounitarie riguardanti la discriminazione del soggetto in condizioni di disabilità sul posto di lavoro e per cui è obbligatorio adottare un “accomodamento ragionevole”, il danno è in re ipsa ovverosia è presunto e va sempre riconosciuto alla persona che lo ha subito.
E’ in questo preciso punto che subentra l’originalità della sentenza in esame; infatti, la quantificazione del danno da discriminazione nell’ordinamento italiano non è disciplinata né normata in maniera dettagliata né standardizzata; non esiste un “protocollo” di riferimento. Si è dinanzi ad una sorta di norma “in bianco” sui generis, un ibrido tra norma civile e norma penale, che descrive nel “precetto” la condotta vietata ma non definisce precisamente la sanzione, cioè la conseguenza giuridica derivante dalla sua inosservanza, lasciata, quindi, alla discrezionalità del Giudice, caso per caso.
La risarcibilità del danno da discriminazione è, nello specifico, regolamentata dall’art. 17 della Direttiva 2000/78/CE; oltre che dall’art. 44, comma 7, D.Lgs.n.286/1998 e dall’art. 28, commi da 5 a 7, del D. Lgs.n.150/2011. Sul punto relativo alla corretta quantificazione e conseguente liquidazione del danno da discriminazione, va rilevato che (come l’art. 15 Direttiva 2000/43, anche) l’art. 17 Direttiva 2000/78 sancisce che la misura del risarcimento dei danni originante dalla condotta discriminatoria debba essere tale che il ristoro garantito al lavoratore discriminato risulti effettivo, proporzionato e connotato da una componente sanzionatoria di dissuasività intesa ad evitare la perpetrazione della condotta discriminante.
Ciò significa, dunque, che il risarcimento del danno da discriminazione, oltre ad esercitare una funzione reintegratoria del pregiudizio subito dal soggetto discriminato (tale da consentire il ripristino dello status quo ante pregiudicato dalla condotta: effettività), abbia altresì una funzione eminentemente sanzionatoria, volta ad evitare che il soggetto discriminante ponga in essere ulteriori comportamenti suscettibili di integrare un’oggettiva disparità di trattamento.
E così si legge nel provvedimento del Giudice del Lavoro del Tribunale di Latina: sulla scorta di tali osservazioni, non può revocarsi in dubbio che, stigmatizzando il carattere di sanzione (di cui il risarcimento del danno da discriminazione si correda), vada operata una liquidazione dello stesso tenendo anche conto dei principi generali dettati in materia sanzionatoria dalla normativa interna, non sussistendo, allo stato attuale, né normative di dettaglio sulla corretta quantificazione del danno da discriminazione, né giurisprudenza univoca sul punto. A tal uopo, viene in evidenza, in particolar modo, il dettato dell’art. 11 della L. 689/1981, disciplinante i criteri da adottare nella liquidazione delle sanzioni a carattere pecuniario.
Dunque, un risultato davvero importante sia per i diritti dei lavoratori in condizioni di grave disabilità sul tema degli “accomodamenti ragionevoli” sia per quanto concerne la innovativa pronuncia sui danni derivanti da discriminazione. Un caso unico ancora in provincia di Latina ma anche a livelli più ampi, essendoci soltanto altri 2 casi analoghi a livello nazionale.
Il richiamo all’applicazione dell’art.11 della L.n.689/1981 inizia a ricevere piena condivisione nelle aule di Tribunale e si è dinanzi ad una svolta epocale, a distanza di 22 anni dall’entrata in vigore del d.lgs.n.216/2003 e di 14 anni dall’entrata in vigore del d.lgs.n.150/2011.
La tutela delle disabilità sul posto di lavoro è attenzionata da anni con una rilevanza particolare; l’Italia ha subito procedure d’infrazione da parte della Commissione Europea; la Commissione Europea ha ribadito in più provvedimenti, sin dal 2010, che spetta agli Stati membri della Comunità Europea garantire l’occupazione delle persone con disabilità. A suo tempo il livello di disoccupazione delle persone con disabilità in Italia era due volte maggiore rispetto a quello di altri Paesi; i diritti dei cittadini con disabilità stentano ancora ad essere riconosciuti ed è anche nelle aule di tribunale che si tenta di “costruire” le fondamenta di una tutela ormai indifferibile ed indispensabile per una migliore società civile.
Tentativi normativi sono in atto per l’abbattimento di tutte le forme di discriminazione, diretta ed indiretta, ma manca ancora una cultura sociale forte, reale, profonda sia nei cittadini sia nelle Istituzioni, il che è anche molto più grave e preoccupante. Il progresso dell’umanità rimane ancora affidato agli Operatori del Diritto, Avvocati e Giudici, di ogni ordine e grado.