14 ORE AL GIORNO DI LAVORO A MENO DI UN EURO ALL’ORA: “UCCISE ANCHE DUE CANI CHE GLI DAVANO FASTIDIO”

Una storia di caporalato arriva ancora dalla Piana di Fondi: a testimoniare due cittadini del Mali costituiti parti civili

Arriva dal profondo pontino, ossia dalla Piana di Fondi, l’ennesima storia di caporalato del territorio dove, a farla da padrone, almeno secondo l’accusa e la testimonianza di due cittadini rifugiati del Mali, è stato un datore di lavoro di Fondi con la compiacenza di altri tre imputati.

Il processo si svolge dinanzi al terzo collegio del Tribunale di Latina, presieduto dal giudice Mario La Rosa. Cinque gli imputati: Maurizio Macaro (65 anni) di Fondi; David Cima (48 anni) di Terracina; Barbara De Santis (54 anni) di Fondi; i pakistani Dawood Khalid (24 anni) e Khalid Hussain (46 anni), entrambi residenti a Fondi. A difenderli gli avvocati Vincenzo Buffardi, Maria Letizia Bortone, Giuseppe Lauretti e Paolo Ciccarelli.

In tre – Macaro, De Santis e Cima – devono rispondere di sfruttamento del lavoro; i due pakistani, invece, sono accusati di falso nell’ambito dei permessi di soggiorno ottenuti dichiarando mendacemente di lavorare in una cooperativa a Fondi.

A parlare, oggi, 2 ottobre, per una storia rimasta nel sottobosco della cronaca, è stato solo uno dei due maliani costituitisi parti civili. Si tratta di Salifou Coulibaly, una trentina di anni, pezzo d’uomo di uno e novanta, che, con semplicità, ha descritto cosa sarebbe accaduto quando lui e il suo amico, Ebou Kujabi (verrà ascoltato come testimone alla prossima udienza del 5 febbraio), erano stati assunti in nero da Maurizio Macaro, uno degli imputati che deve rispondere peraltro anche per aver portato in luogo pubblico un’arma da sparo.

Ad aiutare Coulibaly un interprete che ha tradotto alcune frasi dalla lingua bambara, un idioma storico parlato (senza avere forma scritta) principalmente in Mali. Ad ogni modo, il testimone parla italiano e, solo per qualcosa di più complicato, si è avvalso dell’aiuto dell’interprete.

Il suo racconto è molto crudo. Macaro li avrebbe assunti per farli lavorare come taglialegna, per lavorare con il ferro e anche per costruire una casa. Un’abitazione che avrebbe dovuto ospitare loro due e che, invece, si scopre essere per la nipote dell’imputato, la quale ci sarebbe andata a vivere. Loro, invece, vivevano in un camper e faceva tanto freddo (privo di acqua e riscaldamento): “Dormivamo con i cappotti in uno spazio che era troppo piccolo per tutti e due”. La paga? “Il primo mese Maurizio ci diede 500 euro in contanti, per gli altri quattro mesi solo 250 euro. Lavoravamo ogni giorno, a tutte le ore, anche di domenica”.

Dei veri e propri tuttofare che, nel loro soggiorno da Macaro, dopo essere andati via dal centro “La Ginestra” (peraltro coinvolto nel 2018 in un’altra maxi inchiesta sullo sfruttamento del lavoro), arrivano nel 2019 ad un accordo con il fondano che li “assume” alle sue dipendenze. “Non eravamo neanche liberi di uscire”, spiega Coulibaly mentre viene escusso dal pubblico ministero Marina Marra, dall’avvocata di parte civile e dai difensori.

Come detto, Macaro, De Santis e Cima sono accusati di sfruttamento del lavoro o, per meglio dire, di caporalato. Secondo l’accusa, avrebbero reclutato e assunto manodopera, sfruttando i due extracomunitari. Coulibaly e Kujabi lavoravano 13-14 ore al giorno consecutive senza pause – se si esclude quella del pranzo – e riposi settimanali. A ciclo continuo, fino a che non decidono di denunciare tutto con l’aiuto di un’associazione che presenta tutto alla Polizia.

Secondo l’accusa, la paga per i due maliani era di meno di un euro all’ora rispetto ai 7,50 previsti dal contratto collettivo nazionale. Di contributi neanche l’ombra, né sistemi di sicurezza e tutela per le mansioni che svolgevano, tra cui tagliare il ferro. E a lavorare, si lavorava anche quando non si era in condizioni. In un caso, Coulibaly ha raccontato di avere lavorato pur essendosi fatto male a una gamba.

A latere di una vicenda di degrado, c’è anche la violenza verbale del datore di lavoro che, ogni qual volta i due maliani si lamentavano per qualcosa, cominciava a urlare: “Non capivo cosa diceva perché parla in dialetto”. In questo clima di disumanità diffusa, anche l’uccisione di due cani che si trovavano nell’area dove i due africani dormivano: “Perché li ha uccisi? Non lo so, gli davano fastidio”. Ammazzati con colpi d’arma da fuoco.

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